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Genova, da una finestra in piazza Alimonda si può veder morire un ragazzo

Piazza Alimonda. La nonna Franca abitava proprio in questa piazzetta, una finestrella sulla facciata della chiesa, smontata a fine 800 da via XX Settembre e rimontata in questo snodo della città, vicino alla stazione Brignole, al centro, ma anche all’ospedale e ai piedi della collina di Albaro. In piazza Alimonda è morto Carlo Giuliani. Un ragazzo. Lo ricorda così la targa nell’aiuola davanti alla chiesa, che qualcuno pochi giorni fa, come si vede nella foto, ha preso a martellate e imbrattato di nero. Oggi a Genova, a undici anni dal G8, un corteo ha ricordato Giuliani e le violenze di quei giorni. Ho visto Diaz, il film di Daniele Vicari, solo adesso. Salto da un argomento all’altro: mia nonna, Giuliani, il corteo, il cippo, il film. Ma ho un filo in testa che tiene unito tutto.
Il giorno prima dell’inizio del G8 eravamo andati a trovare la nonna. Dal centro storico sigillato con cancellate nei vicoli siamo usciti dalla zona rossa mostrando i documenti di residenti, abbiamo superato quella gialla. E ci siamo ritrovati nel deserto di via Teodolinda e piazza Alimonda. Ricordo che io e mio papà abbiamo pensato: se in questa parta della città non ci sono controlli sarà qui che ci saranno scontri. Un pensiero da genovesi che conoscono la città. Mia nonna, dalla sua finestra, sentiva urla e scontri. Un giorno mi ha detto “questa finestra è il mio cinema”. Poi è arrivato il cinema davvero. Il film di Vicari è un colpo allo stomaco. Una signora accanto a me se ne è andata dopo un’ora, dopo che i denti erano stati spaccati, e i calci, e il sangue, e quei corpi che sembravano morti. Nel film c’è piazza Merani. L’insegna del Dì per dì, le finestre del primo piano sono quelle dove abitavano i nonni, dove è cresciuto mio papà. La Diaz è stata la sua scuola, quando era un istituto magistrale. Mi chiedo come sarà stato per gli studenti tornare in classe, con le pareti piene del sangue di altri ragazzi. Si unisce tutto: i ricordi della nonna, la finestra da cui si può veder morire un ragazzo, le immagini di un film che però è anche la tua città. Ricordo un vecchietto che a una cancellata che sbarrava Porta Soprana ha chiesto al finanziere che la sorvegliava: “Scusi, sono uscito di casa stamattina e i cancelli erano aperti. Ora che li avete chiusi non so più come rientrare a casa”. Inutile dare indicazioni, nomi di strade, piazze. Chi indossava la divisa di Genova non sapeva nulla.

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Genova, parole sulle pietre

Genova, solo pochi passi. Un madonnaro ha lasciato il suo disegno di gessi colorati incustodito accanto alla cattedrale. Melina bacchetta chi la ostacola. Aveva scritto in rosso uno dei suoi messaggi sotto i portici di piazza De Ferrari, l’avevano cancellata. E lei ha riscritto, perché le parole “sono più importanti di un muro”. E c’è un racconti comparso in una notte. Parole scritte in corsivo bianco, si trovano in tutto il centro storico. Mi piacerebbe avere una mappa con segnate le pagine di questo romanzo urbano. Mi piacerebbe dare un volto e un nome al suo autore.

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Neve. Ricordo giallo e arancio


Nevica. Non molto in effetti. Forse è più pioggia, ma c’è un leggero strato bianco sull’aiuola che vedo dalla finestra. Pavia aspettava la neve. Ne ha un assaggio in queste ore, magari nella notte i centimetri aumenteranno. Per ora, sono le 22, siamo fermi a uno. Scatto una fotografia aprendo la finestra della redazione. La luce è arancione, si vedono i fiocchi sotto il lampione. Neve significa chiedersi se domani mattina vedrò dalla finestra sul tetto nella mansarda solo uno strato bianco. Neve significa chiedersi se domani si giocheranno le partite di calcio. E questo cambia molto nel giornale del giorno dopo. Di ricordi di neve se ne pescano parecchi, basta pensarci qualche minuto. Però, così, appena vista la luce giallastra, mi sono ricordata di un capodanno di tanti anni fa. Ero una bambina, la mia famiglia era invitata a cena da una compagna di scuola. Non lontanissimo da casa, però in un quartiere diverso. Io tra i vicoli del centro storico, lei in cima alla collina di Carignano. Quando siamo usciti, a festeggiamenti finiti, c’era la neve. Quella fresca della notte, intatta anche in una città. Intatta perché nessuna auto circolava, tutti intenti a rincorrere il nuovo anno. Siamo arrivati a casa, io e papà ci siamo cambiati, abbiamo aggiunto qualche strato sotto le giacche e siamo usciti di nuovo. E’ un ricordo giallo arancio, come le luci artificiali sulla strada bianca.

Aspettando Maria

 

Dopo la curva conta 4 fermate del 39. Oregina. Stradina stretta, gradini. La chiesa. E una vista azzurra. C’è Genova lá sotto, oltre quel muretto, con le panchine troppo lontane dal bordo per poter guardare sotto. Il mare, il porto, le gru che oggi non sollevano i container, è domenica. O forse si muovono, ma io da così in alto non le vedo. Oregina. La campana chiama la gente per la messa. Entro. Un anno fa mia nonna se ne è andata. La nonna Maria. Adesso, a una settimana da Natale un prete che nemmeno la conosceva chiederà puntando gli occhi al cielo di ricordarsi di lei. Si fanno dire le messe per i morti. E’ una tradizione. Sarà che sto leggendo “Cosi è la vita” di Concita de Gregorio, capitoli di morte e di come raccontarla, di come parlarne. Sarà per le pagine lette in treno in viaggio per Genova, ma a questa cerimonia sociale oggi presto particolare attenzione.
Mia mamma e mia zia ci tengono a questa messa. Hanno faticato per trovare una chiesa, pare che ci siano delle liste d’attesa. Questa non è la chiesa del quartiere di mia nonna, ma Oregina è il primo angolo di Genova che ha conosciuto quando ha lasciato la Calabria. Io ricordo la nonna senza bisogno di farlo fare a un altro. Ma sono entrata in questa chiesa bianca perché è uno di quei momenti in cui la famiglia ha bisogno di essere insieme. In questo luogo, proprio qui sulle alture di Genova dove mia nonna ha cresciuto quattro figli da sola quando nonno Clemente è morto sul suo camion.
Una chiesa piena di gente, un prete che parla mettendo l’accento su alcune parole. Mi guardo attorno, lo ascoltano in pochi. Però la si definirebbe una messa partecipata: ci sono i canti, i bambini che leggono le preghiere, i disegni fatti al catechismo per l’ultima domenica di avvento, la mostra dei presepi. Io mi concentro sulle parole perché aspetto di sentirgli dire “Maria”, non la madonna, ma la mia “Maria”, la nonna. Per questo vorrei che non scorresse via così il suo nome, vorrei che la chiamasse nonna o mamma. Mi concentro e lo sento raccontare ai bambini l’annuncio dell’arcangelo Gabriele. Due frasi mi colpiscono. Il sacerdote spiega la reazione di Maria. “Maria ha guardato l’angelo stupita e gli ha detto ma come faccio ad avere un figlio se non sono ancora andata in sposa a Giuseppe”? Dopo una pausa il sacerdote aggiunge: “Per far nascere Gesù basta dire ti voglio bene”. Io lo so che pochi bambini lo stavano davvero ascoltando. Lo so che chiacchieravano o guardavano in alto pensando al Natale, ai giochi, ai regali. Lo so. Ma non si può rischiare di creare confusione nei bambini. Mi immagino un piccoletto biondo in prima fila che dice all’amichetta “ti voglio bene ora devi far nascere un bambino”. Ripeto, forse sarà il libro di Concita de Gregorio, scandito dalle domande che fanno i bambini, domande che spiazzano, e dalle risposte degli adulti che sono troppo spesso una presa in giro. Sarà per questo. Eppure vorrei che non si prendesse alla leggera quello che si dice ai bambini. Semplificare va bene, ma non se poi non si può dare risposte alle domande. Penso a questo mentre aspetto. C’è un momento della messa in cui il sacerdote chiede di ricordare il papa, il vescovo, e i nostri cari che non ci sono più. Il prete inizia a leggere i nomi. Ecco Maria. Dopo di lei Bruna. Un’altra figlia, mamma, donna. Non so. Penso che Maria è un nome in un elenco. Penso che dopo la messa si dà un’offerta al sacerdote per aver pronunciato quel nome, per aver chiesto a dio di ricordare i nostri morti. Penso che mia nonna era molto di più di un nome in un elenco.

Cosa possiamo fare per loro? Un aiuto da Twitter

Cosa possiamo fare per loro? Una domanda che mi ha tolto il fiato.

In questi giorni in cui Genova è distrutta dalla pioggia ancora una volta Twitter ha dimostrato quanto può essere utile per dare informazioni. Il Secolo XIX ha aggiornato, segnalato e a sua volta raccolto segnalazioni dalla gente, da chi magari non poteva telefonare perché i cellulari hanno problemi e i telefoni fissi sono alle prese con continue interferenze. Internet dunque come unico mezzo di comunicazione. Ieri mattina ho mandato anche io un tweet: mia zia in piazzale Adriatico era ancora bloccata in casa, gli appartamenti e le scale del primo piano invasi dal fango, impossibile quindi uscire. Con lei c’era una vicina con un bimbo piccolo, scappata dalla sua casa ormai da buttare, ma senza pannaloni per il piccolo. Tutti senza elettricità. Ho scritto al SecoloXIX perché io faccio lo stesso lavoro. Curo i social network del quotidiano La Provincia Pavese e mi è venuto naturale mandare una segnalazione. Ho pensato che li avrebbe aiutati a raccogliere voci dalla città, e forse segretamente ho pensato che potessere servire a quelle persone in trappola. Mi hanno risposto subito che avrebbero girato la segnalazione alla regia dei soccorsi. Dopo qualche ora mi hanno ricontattata per sapere se la situazione era risolta, e no, ancora no, la ragazza era riuscita a farsi portare via con il bambino, ma nel palazzo c’erano oltre a mia zia molti anziani tutti senza luce. Il tweet del SecoloXIX “cosa possiamo fare per loro?” mi ha commossa. Perché ho subito chiamato mia zia e le ho chiesto di cosa avevano bisogno, se avevano da mangiare, acqua. Ancora per un giorno sì ed è quello che ho risposto al quotidiano. Mi ha commossa perché ho capito che avrebbero fatto in modo di intervenire. Avrebbero davvero fatto qualcosa. E non posso che ringraziarli.

Potenza di Twitter, ma anche e soprattutto delle persone che ci stanno dietro.

Genova, la paura di non essere là

Sono morte sette persone a Genova. Travolte dall’acqua, quell’acqua che soffoca, che copre, sommerge, ribalta, distrugge.  Una mamma ancora abbracciata alla sua bambina. Se sei lontano da casa puoi solo guardare le immagini che scorrono sul computer. Puoi solo leggere l’aggiornarsi di un racconto in diretta che ti tiene sospeso. C’è l’acqua che scorre come un torrente e invade le scale del sottopasso di Brignole. C’è Brignole, la stazione allagata, quel mare marrone che raggiunge la via dello struscio, che risale via XX e la gente si ferma a un passo dal toccare il fango. Ho cercato mio fratello, era in biblioteca lontano dal caos. Ho cercato mia mamma. Mi ha risposto subito. Una mattinata difficile, bloccata un’ora nell’atrio di un palazzo, poi nel pomeriggio è rimasta a casa. La zia Romy dal Bisagno a Oregina ha camminato per tornare a casa, via dall’ufficio che iniziava ad allagarsi.  Impossibile usare gli autobus, una lenta scalata attraversando tutta la città sotto la pioggia. La zia Luciana con nonna Antonietta è rimasta bloccata a casa, quarto piano, perché il primo piano della palazzina è allagato. Ospitano una ragazza giovane con un bimbo. Si arrangeranno sul pavimento. Storie piccole rispetto ai morti, lo so. La nonna Franca abita in piazza Alimonda, proprio la piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Finestrelle che bucano la facciata della chiesa. Non rispondeva al telefono. E a pochi metri da casa sua l’acqua continuava a salire. Fa paura. Poi mi chiama mia mamma. La nonna è andata da una vicina, una famiglia che ha lasciato il Marocco, una mamma con i suoi bimbi. Si tengono compagnia perché non possono uscire, è andata via la luce. Mio papà è in viaggio da Roma, ha preferito tentare comunque il rientro. Il suo treno è partito in ritardo, mezz’oretta fa era a Massa. Aspetto un messaggio per sapere che è arrivato a casa.

Vedere le immagini della mia Genova sommersa fa male, uno stato di ansia che ti fa sentire i battiti del cuore forti sul collo. Non puoi fare niente. E fa rabbia. Perché riconosci gli angoli e le strade, i muri, le piazze, ti ricordi che il letto del Bisagno era pieno di alberi e tronchi e che tutte le volte che sei andata a Marassi  allo stadio e ci sei passata hai pensato che quel torrente è secco e pericoloso. Fa rabbia perché senti di ragazzini fatti uscire da scuola e abbandonati alla strada. Vedi una bimba con l’acqua fino alla pancia che dice che ha paura. Senti la storia di una ragazzina, Martina, persa di vista dagli amici. Pensavano fosse morta. L’hanno ritrovata. Premi il tasto F5 della tastiera per aggiornare la pagina del Secoloxix e di Repubblica e il numero dei morti cresce. Il problema è che non sei lì. Non sono lì, e se dovesse succedere qualcosa so che non me lo perdonerei.

Precari eliminati, ultimo giorno a pulire gli avanzi della Notte bianca

Nel caos della Notte bianca di Genova, tra la folla, tra le 400mila persone in movimento, nei vicoli soprattutto, nel centro storico, le pettorine gialle spiccavano nel buio. Gli spazzini dell’Amiu hanno lavorato tutta la notte, hanno iniziato a raccogliere cartacce e avanzi di cibo presto, prestissimo. Mi dicono che le loro ore di lavoro per la Notte bianca genovese sono state pagate dagli sponsor. Ma il loro contratto resta appeso a un filo, e per molti è già carta straccia. Una protesta silenziona: un cartello attaccato alla schiena con la scritta “Precario eliminato”. Perché per effetto dei tagli il loro posto di lavoro è perso. Quanti dei 400mila hanno visto quei fogli bianchi sulle schiene di ragazze e ragazzi tutti giovanissimi?

Copio e incollo dal Secolo XIX

“Record di lavoro con i precari Amiu e super raccolta di vetro con un tonnellaggio superiore a quello del 2010 mentre in leggero calo quello della plastica. Lavoro svolto da 300 operatori Amiu, un terzo dei quali era all’ultimo o penultimo giorno dilavoro quale precario, condizione in cui si trova mediamente da due o tre anni con punte anche di cinque o sei. Ora licenziati a causa della finanziaria che assoggetta, pur essendo Amiu in condizioni di gestione economica di equilibrio e una società di igiene pubblica, non un ente locale o simile, al blocco di assunzioni a termine o alle stabilizzazione”.

Viaggiare un lunedì di luglio

Viaggiare un lunedì di luglio. Prendo il treno alle 9.30, Pavia-Genova. La macchinetta (tra l’altro hanno cambiato le biglietterie automatiche in stazione, aggiungendone un paio) mi dice che non c’è più posto. Amen, faccio il biglietto per il treno dopo ma salgo lo stesso. Me lo farò cambiare dal capotreno. Che però non si vede e quando si vede non si ferma. Anche perché la gente viaggia nel corridoio, in piedi o seduta sulle valigie o sui seggiolini ribaltabili. E quando è così nessuno si ferma a chiedere i biglietti. Mi devo alzare un po’ di volte, lasciar passare il mini-bar, e un po’ di gente che va al mare. In lontananza sento una bambina litigare con la nonna. “Non capisci – le dice – come si fa a prendere lo stesso albergo dell’anno scorso? E’ come una pianta che si secca, ne devi scegliere un’altra”. Rifletto. Ma siccome sto leggendo Alveare di Giuseppe Catozzella torno presto con la testa nel sangue e nei soldi della ‘ndrangheta.

Viaggio un lunedì di luglio e attraverso il mio centro storico come da molto non facevo. Via del Campo e la colonna infame, il profumo di spezie, le prostitute con i seni e le braccia cascanti sedute fuori dalla porta, i colori, le facce, le scritte in lingue difficili da imparare. Una bicicletta agganciata con tutta la forza alla chiesa dove sono stata battezzata colpisce il mio sguardo.

Viaggio un lunedì di luglio e non può essere tutto normale. Treno del ritorno ore 19.19. L’altrio della stazione Principe è pieno e si capisce subito che c’è qualcosa che non va. Strizzo gli occhi miopi per leggere i ritardi sul tabellone: 3 ore. Treni soppressi. Esce benzina dall’oleodotto a Sestri Ponente e i vigili del fuoco hanno chiuso le strade, evacuato 120 persone (questo lo scoprirò solo ore dopo) e fermato i treni… perché potrebbe saltare tutto. Fantastico. Comunque alla fine mi va persino bene. Il regionale delle 19.35 parte da Genova Brignole, e quindi è puntuale, senza un minuto di ritardo. Con il mio biglietto precedente da Intercity (13 euro) mi siedo nella prima classe del regionale, che è solo un po’ meno fetida del normale. Finisco di leggere Catozzella. Nei sedili di fianco a me, oltre il corridoio, una ragazza ha perso il cellulare. Aveva spostato le borse in un punto vuoto del treno e ora non trova più il telefono. Dev’essere russa, biondissima. Torna al suo vecchio posto, un passeggero le dice “lo facciamo squillare” (le porge il suo telefono perché sia lei a digitare il numero… tanto poi gli rimane in memoria, non è che sia un inno alla privacy). Ma non serve. Un ragazzo lo tira fuori dallo zaino. Lo restituisce. Poi parlando da solo in una lingua sconosciuta cambia scompartimento.

Ho conosciuto Melina Riccio

Ho conosciuto Melina. Piazza De Ferrari, Genova. L’ha vista prima mio fratello, seduta sui gradini del teatro Carlo Felice. I capelli grigi cortissimi, fiori a decorarle la testa, un abito giallo, un mantello scuro, con cucito il suo nome chiuso in un cuore: Melina Riccio. Genova è piena dei suoi messaggi. Li trovi dipinti di rosa sul cemento della sopraelevata, pennarello nero sui cartelli della stazione. A Pasqua gli alberelli di alloro del teatro erano coperti dalle sue tele. Tulle chiaro cucito su sacchetti della spazzatura, cuori dorati sul cartoncino rosso. Mi sono avvicinata, le ho chiesto di spiegarmi. Mi ha messo tra le mani un cuore di carta e ha iniziato il suo racconto. Parla in rima Melina. Non puoi trovare senso in tutto quello che dice, ma resti incantato. Il “domani” significa fare le cose “con le mani”. Non basta imparare una ricetta per sapere fare una torta. La dimentichi subito, anche se leggi con attenzione ogni passaggio. Devi provare a farla la torta, solo così ti rimarrà impressa la ricetta. Melina dice che passiamo troppo tempo concentrati sulla carta, sulle parole. Mentre mi parla ritaglia un pezzo di carta bianca a forma di stella. “E’ il nostro corpo”, mi dice. Piega su se stesse le gambe, poi le braccia e la testa. E’ quello che ci succede, ci chiudiamo in noi stessi, troppo concentrati a imparare nozioni. Non siamo più capaci di guardare il sole, di svegliarci al mattino e apprezzare quello che ci circonda. Secondo Melina dobbiamo essere creativi, rispettare l’ambiente, non creare rifiuti, non sprecare carta, parlare in modo corretto. Non farci cancellare dalla croce della chiesa e delle istuzioni, diventare autosufficienti, capaci di cavarcela da soli, senza dimenticarci degli altri. Avrei voluto registrare ogni singola parola, non riesco a ricordare nemmeno una rima. Faceva la sarta Melina, cucire era il suo lavoro. E’ nata ad Ariano Irpino, 23mila abitanti, provincia di Avellino. Sposata con tre figli. Ha vissuto a Milano, Varese, Genova. Un giorno, mi racconta, ha sentito che doveva fare qualcosa, chiamata da dio a diffondere un messaggio di amore, di pace. Ha lasciato tutto. Sapeva che i suoi figli avevano bisogno di lei. “Ma lasciandoli potevo salvare il futuro di tanti giovani”. Ti chiede cos’è l’anima. Cos’è l’anima? Aria, essenza.

Via Canneto il Lungo perde la sua identità

Via Canneto il Lungo è la strada della spesa, dei fruttivendoli, del pesce fresco. Lunga e stretta, tante vetrine, vecchie botteghe dai profumi antichi e i colori accesi dei nuovi genovesi. E’ una strada fatta di pietre, rigate, scalfite. Da mesi il cantiere è aperto, si apre, si chiude, si sposta. Tubi da cambiare. E a vederli smontati, aperti, rotti vien da dire “meno male”. Però c’è qualcosa che non fa stare tranquilli chi ci vive. Vado a Genova la domenica, nemmeno tutte. Un giorno ho trovato i tubi del gas che passavano in alto all’altezza del portone di casa mia. Provvisori. Un altro giorno non ho trovato più le pietre, solo voragini. Provvisorie. Poi è arrivata la sabbia, dopo ancora l’asfalto. Provvisorio. Solo a tratti, solo in alcuni punti. Un rattoppo. Provvisorio anche questo. Io voglio crederci. Voglio credere che finiti i lavori le pietre torneranno al loro posto. Voglio credere che non ci vorranno anni. Ma ricordo bene stradone Sant’Agostino. Pieno centro storico, sede della facoltà di architettura. Lì per non rovinare la pavimentazione durante alcuni lavori avevano steso una copertura di plastica e poi una colata di cemento. Ci è rimasta anni. Anche a cantiere chiuso da tempo. Le fotografie ci sono, le date anche, non si può scherzare. Le lascio grandi apposta queste immagini. In alto si vede piazzetta dell’Amico, un pezzo di asfalto, le poche pietre rimaste, cemento. E poi una delle tante passerelle che scandiscono via Canneto il Lungo. Questo è una specie di nodo al fazzoletto. Perché adesso una delle più tradizionali strade del centro storico di Genova ha perso la sua identità e bisognerà essere capaci di restituirgliela.

Meno 8 ore al click day

Tra 8 ore scatta il primo click day. Dalle 8 in punto di domani mattina, lunedì 31 gennaio, i cittadini stranieri potranno presentare la domanda per regolarizzare il proprio lavoro. Solo on line, solo davanti a un computer, solo domani, solo dalle 8. L’orario è fondamentale. Questa è una gara a chi “clicca” per primo. E’ una gara per aggiudicarsi qualcosa come 98mila posti di lavoro. Perché si terrà conto – nel valutare le richieste –  dell’ora di invio. Dicono che a lavorare in nero però ci siamo almeno 500mila persone. Che forse domani mattina punteranno la sveglia, accenderanno il computer, apriranno il sito del Ministero dell’Interno e guarderanno con ansia all’orologio appeso alla parete. Pronti al click. Potrebbe essere una scena perfetta. Ma mi guardo attorno e non capisco. Penso ai miei vicini di casa genovesi, che schiacciati vivono in sei o sette in pochi metri quadri. Non hanno un computer. Penso al ragazzo senegalese che ogni tanto incontro per le scale. Vede suoi figlio uno volta all’anno, con il lavoro si arrangia. E non ha un computer. Penso agli operai, a chi si sveglia all’alba e cerca lavoro. Non hanno un computer. Sì, ci sono i patronati, i sindacati che si mettono a disposizione. Ma continuo a pensare che il click day sia solo un modo per dire che siamo abbastanza tecnologici, che evitiamo alle persone lunghe code davanti agli uffici, che risparmiamo carta, tempo. Senza pensare che a quei numerini scritti in basso a destra sullo schermo del computer corrisponde il futuro di molte persone. E penso alle donne, spesso in Italia per pochi mesi all’anno. Aggrappate ai secondi di un giorno dal nome americanizzato. In provincia di Pavia per almeno mille stranieri ci sarà la possibilità di svegliarsi al mattino senza la preoccupazione di un lavoro che non ha garanzie, di sicurezza, di soldi, del domani. Ma tutto dipende da un click.

L’autobus delle donne di servizio

Il 15 e il 42 sono gli autobus delle donne di servizio. Me lo dice mia mamma, siamo sedute proprio sul 15, al capolinea in piazza Dante, Genova. Io e la zia la ascoltiamo, un sorriso velato. Invece ha ragione. Dobbiamo ragionare un po’ per luoghi comuni, ma ci accorgiamo che nel giro di pochi minuti sull’autobus salgono solo donne. La maggior parte di origine sudamericana. Si conoscono, si salutano, si raccontano. Sono le 8 e sempre mia mamma ci spiega la storia sociale di queste due linee. Il 15 e il 42, con percorsi diversi, puntano entrambe verso Albaro, il quartiere delle ville, “di gente che sta bene”, gente che ha “la donna di servizio”. E il ragionamento fila. Al rientro, lasciata la linea delle badanti di lusso, saliamo sul 20, che va verso Sampierdarena. Tutto il contrario di Albaro, che porta un nome arabo Al-bar, al mare. E’ pieno, poi si svuota in via XX settembre, alla fermata davanti al Mercato Orientale. Scende anche un signore. Lascia il posto (più comodo ma sempre in piedi a mia zia). Ci sente parlare del pranzo, piadine formaggio e prosciutto. “Quasi quasi mi aggiungo anch’io”, dice ridendo. “Non è un gran pasto”, rispondiamo noi. “Ma sa cosa mi piace mangiare? – dice lui proprio prima di scendere – pane olio e zucchero, non sale”. La merenda di una volta. Anche questo ragionamento fila.


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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