E’ una città che accoglie, che sopporta i gruppi di turisti, i commenti stupidi. La gente è pronta ad aiutarti, ti soccorre in una lingua qualsiasi al tuo solo accennare una parola di portorghese, timido sforzo per non dover sempre pesare sulla bontà altrui. Così ti trovi al cafè Brasileira, a sorseggiare un cafè expreso e il cameriere si ferma a sfogliare il tuo giornale, ti chiede se può dare un’occhiata anche il vicino. In portoghese, poi a gesti. Il punto è che non importa.
Dopo pochi giorni sembra di essere qui da sempre. La mappa della città non serve più. Ricordi le strade, i passaggi, l’ascensore che accorcia il tragitto, l’elevador che poi è una funicolare, ancora in legno, profuma di tradizione. Un omino con la polo beige ti apre lo sportello per salire, poi lo chiude prima di partire. Butta in discesa questa scatola gialla, che attraversa le case e si affaccia sulla vita degli altri. Poi arrivati in fondo, ti chiede il biglietto, tira fuori la chiave, apre il cancello e ti lascia uscire. Fuori il porto. Questa è la vita dell’ascensor della Bica, che si ripete ogni giorno.
Abbiamo attraversato Porto e Lisbona, ma anche piccole realtà, sulla costa, all’interno, paesini minuscoli e località di mare. Monasteri, castelli, mondi di fiabe. Eppure i volti della gente sono gli stessi. E’ gente che porta i segni della fatica. Un po’ meno a Lisbona, tanto invece a Porto. Tutto è fermo ad almeno trent’anni fa, lo vedi dagli abiti delle persone e dai banconi dei bar. Dalla voglia di mantenere intatte persino le scatole dei prodotti alimentari, che così sembrano uscite da vecchie pubblicità. Il caffè costa ancora 55 centesimi. E i modi sono quelli di una volta, con il proprietario del bar che ti sistema il tavolo per vedere meglio il mercato, o che ti offre da bere per brindare alle tue ferie, come ci è successo a Nazaré, o che ti prepara il Porto Tonic al tavolo e ti chiede se va bene.
C’è sempre gente in giro. I più giovani animano il Bairro Alto, ma tutto intorno è un continuo passaggio di persone, da un locale all’altro, ma anche solo in strada, l’aria fresca, il pavimento bianco luccicante.
Non riesci a sentirti estraneo. Forse anche per la dimensione casalinga che l’Ostello dei Poeti ha dato a questa vacanza. La cucina in comune, un enorme salone con pouf colorati e cuscini sui tappeti. Il parquet in legno chiaro e le stanze da condividere con altri viaggiatori. Abbiamo incontrato tanti ragazzi che viaggiano da soli. Alcuni lontani dall’apprezzare l’essere in continuo movimento, altri meticolosi nella missione per conoscere più persone possibili. Ma comunque soli, zaino in spalla.
Scrivo a gambe incrociate su un pouf nero. Accanto a me Betty (pouf arancione) aggiorna le fotografie. Ho alle spalle un ragazzo indiano e una coppia di spagnoli, parlano in inglese, argomento Lisbona e altri viaggi. Girano per il salone altre ragazze, ci sono russi, francesi. Qui tra di noi, per fortuna, nessun italiano. Fuori, per strada, ne abbiamo incontrati troppi. La luce è soffusa, un’amaca è appesa all’angolo con la finestra. Se ti affacci vedi i tetti, e sotto, le tende gialle dei bar, l’uscita della metropolitana Chiado/Baixa, il pavimento di quadratini lucidi e scivolosi, la fermata del tram numero 28. La sera c’è sempre qualcuno che suona, per tirare su qualche soldo. Ecco, in tanti qui sembrano arrangiarsi. Poche ore fa, ad un incrocio un ragazzo si è messo a dirigere il traffico con un giornale, e a dirottare le auto verso i parcheggi liberi. E con qualche mancia di chi ha trovato più facilmente il parcheggio se ne è andato più sereno. La gente si arrangia, con i turisti, con gli avanzi dei mille ristoranti. Però sorride.