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Viaggiare un lunedì di luglio

Viaggiare un lunedì di luglio. Prendo il treno alle 9.30, Pavia-Genova. La macchinetta (tra l’altro hanno cambiato le biglietterie automatiche in stazione, aggiungendone un paio) mi dice che non c’è più posto. Amen, faccio il biglietto per il treno dopo ma salgo lo stesso. Me lo farò cambiare dal capotreno. Che però non si vede e quando si vede non si ferma. Anche perché la gente viaggia nel corridoio, in piedi o seduta sulle valigie o sui seggiolini ribaltabili. E quando è così nessuno si ferma a chiedere i biglietti. Mi devo alzare un po’ di volte, lasciar passare il mini-bar, e un po’ di gente che va al mare. In lontananza sento una bambina litigare con la nonna. “Non capisci – le dice – come si fa a prendere lo stesso albergo dell’anno scorso? E’ come una pianta che si secca, ne devi scegliere un’altra”. Rifletto. Ma siccome sto leggendo Alveare di Giuseppe Catozzella torno presto con la testa nel sangue e nei soldi della ‘ndrangheta.

Viaggio un lunedì di luglio e attraverso il mio centro storico come da molto non facevo. Via del Campo e la colonna infame, il profumo di spezie, le prostitute con i seni e le braccia cascanti sedute fuori dalla porta, i colori, le facce, le scritte in lingue difficili da imparare. Una bicicletta agganciata con tutta la forza alla chiesa dove sono stata battezzata colpisce il mio sguardo.

Viaggio un lunedì di luglio e non può essere tutto normale. Treno del ritorno ore 19.19. L’altrio della stazione Principe è pieno e si capisce subito che c’è qualcosa che non va. Strizzo gli occhi miopi per leggere i ritardi sul tabellone: 3 ore. Treni soppressi. Esce benzina dall’oleodotto a Sestri Ponente e i vigili del fuoco hanno chiuso le strade, evacuato 120 persone (questo lo scoprirò solo ore dopo) e fermato i treni… perché potrebbe saltare tutto. Fantastico. Comunque alla fine mi va persino bene. Il regionale delle 19.35 parte da Genova Brignole, e quindi è puntuale, senza un minuto di ritardo. Con il mio biglietto precedente da Intercity (13 euro) mi siedo nella prima classe del regionale, che è solo un po’ meno fetida del normale. Finisco di leggere Catozzella. Nei sedili di fianco a me, oltre il corridoio, una ragazza ha perso il cellulare. Aveva spostato le borse in un punto vuoto del treno e ora non trova più il telefono. Dev’essere russa, biondissima. Torna al suo vecchio posto, un passeggero le dice “lo facciamo squillare” (le porge il suo telefono perché sia lei a digitare il numero… tanto poi gli rimane in memoria, non è che sia un inno alla privacy). Ma non serve. Un ragazzo lo tira fuori dallo zaino. Lo restituisce. Poi parlando da solo in una lingua sconosciuta cambia scompartimento.

Vite che scorrono al centro di un treno

Il corridoio del treno separa due mondi che scorrono uno accanto all’altro e sembrano non guardarsi. Sono seduta in uno di quegli scompartimenti con i tavolini per gruppi di quattro posti, sono al centro. Di fronte a me una mamma cerca di far passare il tempo ai due figli, in viaggio verso il mare. Lei tiene in mano un mazzo di figurine, loro cercano il numero, separano le doppie, incollano sagome e vignette sugli animali. Il più piccolo tiene il muso, senza spiegare perche’. Se la prende con il più grande, non attaccano lo stesso numero di figurine. Mentre leggo La stella di Ratner (De Lillo) un uomo dall’altra parte, lato finestrino, ripete l’orario d’arrivo al telefono, insiste, dall’altra parte forse avevano capito male. Al suo tavolino un ragazzo tiene la testa bassa. Piange. Non riesce a smettere. Lo consola una biondina, gli tiene la mano sulla spalla. Parlano inglese, troppo piano anche solo per cogliere qualche parola. Perche’ piange? Sul treno si mischiano le vite delle persone, vite che difficilmente si incontrano.

Incrociando la Blat Family Tribu

Scendo dal treno. Ha piovuto, ma non piove più. Quando arrivo a Genova e non trovo subito il sole mi infastidisco, come se mi portassi dietro un filo di grigiore, contagioso. Sono quasi le cinque del pomeriggio, attraverso la stazione, vado verso la metropolitana. Alzo lo sguardo e vedo che tra le nuvole ancora scure si apre uno spiraglio. Sorrido. Mentre scendo i gradini, tenendo stretto in mano il biglietto del metro, vedo questo furgone (vedi foto) stracarico e sporco. Ha tende scure ai finestrini, è una specie di camper. Dentro non c’è nessuno, dietro una piccola Vespa rosa. Sorrido. Vedo una scritta: Blat Family Tribu. Scatto una foto e passo oltre. Però sono curiosa e trovo soddisfazione grazie a Google. Scopro che BLAT sta per Brice, Lou, Aude e Teo, rispettivamente papà, bimba di 1 anno, mamma e bimbo di 8 anni. Sono in viaggio, stanno attraversando l’Europa diretti in Mongolia, tappa obbligata del loro percorso la Russia. Sono partiti il 10 marzo 2010 e hanno fissato la data del ritorno ad Antibes: 31 gennaio 2011. Manca poco insomma. Sul loro sito tengono un diario di viaggio (http://www.wix.com/divinoria/blat-family-tribu), spiegano come fanno studiare il piccolo Teo per non fargli perdere la scuola e raccolgono i commenti di chi li incontra e li incrocia. Da dieci mesi la loro casa è un furgone, la Francia sempre più distante, e ora quando al rientro manca davvero poco Genova segna una delle ultime tappe.

Finestrini larghi chiusi sul mondo

 L’aria è fredda, così si insegue il sole, anche in attesa al binario. Il treno scorre lento, taglia paesaggi ingrigiti dalla brina. A Creverina, frazione di Isola del Cantone, c’è ancora il presepe, sagome di legno chiaro, persino un cammello e un angelo, sospeso. Che l’aria è gelata lo senti anche nel calore odoroso dello scompartimento. Mi accompagna Tangenziali, di Biondillo e Molina, nelle orecchie la musica scelta dal dio Ipod, brani casuali, adesso c’è Tutto su Eva, Carmen  Consoli: “Giurerai di non aver colpa mentre le lacrime bagnano la tua camiacia di seta”. Penso sia una fortuna che i finestrini dei treni siano così larghi, spaziosi: aperture sul mondo vero, perché dentro, mentre attraversi tempo e spazio, è facile illudersi di poter essere altrove.

Borno, senti il calore

Prima ancora del freddo nella neve senti la luce, il calore che viene dal sole, anche se nascosto, anche se coperto dalle nuvole. Gli alberi proteggono il terreno ai loro piedi, dalla luce per dare spazio al ghiaccio, dal freddo per lasciar sbocciare poche foglie verdi. Borno, quasi 2800 abitanti arrampicato in Val Camonica, ha case di pietra e legno, stradine strette da fare di corsa in discesa per non perdere il terreno sotto i piedi. Ha tanti turisti, i più adatti alla montagna sono parte del paese, cittadini aggiunti. Altri stridono, dovrebbero essere altrove: chi pretende un negozio aperto oltre gli orari di chiusura non ha niente a che vedere con chi si sveglia all’alba per garantire i servizi a chi li vuole trovare pronti. Chi cammina avvolto in giacche e sciarpe costose non può pretendere niente dai volti di chi vive tra le montagne. L’accoglienza tutto questo lo sottolinea. Un modo per insegnare il rispetto.

Sono stata tre giorni a Borno. Un viaggio in tre tappe (in altrettante foto su http://bruschidettagli.tumblr.com) Pavia-Milano, Milano-Brescia, Brescia-Boario. L’ultimo tratto su un trenino a un vagone, gli interni verde acqua, i sedili in pelle. Accanto a me il sosia di Guccini leggeva La spia che venne dal freddo di John Le Carré. Il treno si ferma in paesi anche piccolissimi.  A Tolino un albero è cresciuto quasi dentro alla stazioncina abbandonata. La pancia del vagone si apre e lascia entrare un vecchietto con la cuffia scura a proteggere la testa. Ho accettato un consiglio e da una stazione all’altra mi sono fatta accompagnare da Paolo Rumiz e dal suo L’Italia in seconda classe. Un viaggio in treno lungo tutto il paese. Suggestiva l’unione di parole e immagini, le sue e le mie.

La famiglia di Betty a Borno apre le porte del Navertino a chi vi passa accanto a inizio o fine passeggiata, a chi in paese apprezza i piatti della tradizione, a chi li vuole scoprire. I tavoli in legno, il calore della stufa, le tovaglie rosse come le bottiglie che decorano le finestre. Sopra la trattoria ci sono le camere, ciascuna porta il nome di un fiore. Si intrecciano su per la montagna, le pareti bianche, un terrazzino e due tavolini per curiosare tra i cavalli che stazionano sull’erba ghiacciata. Mi porto dentro racconti del paese, i ricordi della famiglia, i nomi e i soprannomi dei protagonisti delle storie. I vasi lanciati a Capodanno, un giovane che diventerà prete, la chiacchierona che stordisce con parole senza fine, il compleanno di Walter, Famiglia Cristiana che suona alle 8.30 del mattino, la mostra fotografica. E poi la storia, quella della nonna di Betty che negli anni Settanta capì che quel fienile dove spesso la gente si fermava a chiedere un piatto caldo poteva diventare un ristorante, un posto dove dormire. La scommessa di uno spirito battagliero, che ha creduto in un progetto, nell’importanza dell’accoglienza. Ci ha creduto nonostante tutto e questo dà valore ad ogni angolo del Navertino. E poi i clienti: quelli fedeli, quelli insopportabili. Accolti comunque. Un sorriso per condividere. Un sorriso, più amaro, per ammonire. Perché non c’è niente di scontato.

Da Israele alla Russia, passando per Mortara

Andata.

“C’è una signora col passeggino che deve scendere, aspetti!” Il treno mentro lo dice inizia a muoversi. “La signora ormai scenderà a Genova”. Dialogo ragazza-capotreno.
Nel mio scompartimento solo io alzo la testa. Davanti a me un ragazzo che sembra uscito da un telefilm americano ascolta l’ipod. Non sente. Un signore sulla sessantina non dice niente. E poi c’è una famiglia israeliana. Etichetta sulla valigia. Il figlio grande, sulla ventina, mi lascia il posto (problemi di prenotazioni). Jeans, occhiali da sole sulla testa, capelli due millimetri, faccia gentile. Ha le scarpe da ginnastica nuove: bianco pulito e lacci verde chiaro. La figlia più piccola (si chiama Slil, “come il suono di un campanello” dicono, anzi mimano) ha 12 anni. La mamma che sa pochissime parole di italiano disegna i due numeri sul palmo della mano. Non va a scuola perché ci sono le vacanze. E’ bionda, piena. Ha il rimmel blu. Il marito ha i capelli ricciolini lasciati un po’ lunghi, tiene gli occhiali da sole, la maglietta gialla è attillata. Prima di scendere metterà un cappotto blu, fuori stagione, sembra quasi non essere suo. La ragazzina ha occhi furbi e svegli, una ciocca di capelli biondi su riccioli scuri. Tiene stretto un asino di peluche. Guardano fuori dal finestrino avanzi di neve. “Da voi nevica?” chiede il sessantenne. “Solo per un mese”, risponde il capofamiglia in inglese. L’altro capisce “solo un giorno”. Si parlano in lingue diverse. Mi offrono dei wafer al cioccolato. Sono affascinati dal panorama. Quello che vedono dal finestrino è una conca di verde intorno a Ronco Scrivia. Eppure ne sono incantati. Nello scompartimento accanto al mio non hanno la mia stessa fortuna (mentre sento una signora – che poi scoprirò dopo essere di Mortara – che chiede “com’è finita poi roma-inter?” penso agli scompartimenti come a delle stanze. Sì, penso proprio “che voce odiosa ha la signora nell’altra stanza”). Lì viaggia una coppia di Voghera che sta andando a Genova, hanno la barchètta a Sestri. La mortarese li martella. Occhiali scuri, grossi. Over 60, forse di più, ma tenuta bene. Racconta di tutto. E’ la sola a fumare in famiglia, un pacchetto al giorno (“l’altra sera ho fatto finta di mettere a posto le cose in cucina e sono andata a fumare di nascosto sul balcone”). Usa il treno abbastanza spesso. “Ma che paura ho avuto a Vigevano. Aspettavo il treno delle setteeunquarto quindi neanche tanto tardi e continuava ad avvicinarsi gente hai-da-accendere, hai-50-centesimi. Nemmeno a Porta Genova a Milano è così…”).

Ritorno.

Leggo Salomov. Si siedono due musicisti. Uno grosso, imponente, scenderà poi a Pavia. L’altro ha un accento straniero, ma parla un italiano perfetto, solo ogni tanto prende tempo per cercare la parola giusta. Camicia bianca, completo scuro. Scenderà a Milano. Ha lavorato alla Scala, o forse ci lavora ancora non riesco a capirlo. Si dice soddisfatto perché ha suonato quasi con tutti i direttori d’orchestra. Li elenca. Un peccato non conoscere e non riconoscere nemmeno un nome, ora saprei dire chi è uno stronzo, quale invece è bravissimo ma tratta male la gente, e chi a volte se ne frega e anche se qualcuno sbaglia fa finta di niente. A Tortona (il 1538 da Genova non ferma a Voghera) sale una famiglia. Sono russi. Mamma (piccolina, capelli corti scuri, occhialini), papà (il maglione a collo alto infilato nei pantaloni, la giacca lunga, il cappello di pelle nera, baffi biondi quasi arancioni), figlia (piumino rosa, capelli chiari). Lui curiosa sulla guida (vedo una foto di piazza De Ferrari). Sono stati all’outlet di Serravalle. Hanno diversi pacchi, hanno comprato le scarpe da Ferragamo. Scenderanno a Milano. Cosa racconteranno dell’Italia?

Je t’aime… C’est trop

Il controllore apre la porta dello scompartimento. “Buongiorno biglietti”. Un rito. A cui ci sottoponiamo tutti. Lui però dorme. Il controllore gli tocca un ginocchio. La testa cade pesante, come attratta dalla terra. “Il biglietto”, chiede il controllore. Lui apre gli occhi, sono bianchi sulla pelle nera. Le cuffie alle orecchie, lo guarda, come se non sapesse perché lo hanno svegliato. “Le billet”? “Si”. “Cosa succede se non ce l’ho”? “Non farmi perdere tempo, dai”. Allora tira fuori dalla tasca un biglietto piegato, seccato. Ma è un atteggiamento. Lo guarda. “E’ quello”? Gli chiede il capotreno. Lui non dice niente, glielo passa. “Sì, Genova”. Se lo riprende, lo mette in tasca. Io non ho staccato gli occhi dal mio libro. Ma so che ora mi sta guardando. Ha un anello grosso, d’argento credo, piatto. Le mani rovinate, ruvide. La pelle scura scura e il palmo della mano chiaro. “Il biglietto, il biglietto, tu hai già pagato il biglietto?”. Ripete queste parole come fossero parte di una filastrocca, e la recita guardando me. Io sorrido, e torno a leggere. Non sorrido per compiacere, né per circostanza. E’ un sorriso sincero, perché lui avrà pensato qualcosa del tipo “erano tutti sicuri che io fossi senza biglietto”. E invece no. Sorrido ma ho il mio libro a mantenere il distacco.

Carrozza 9, in testa al treno. Una signora si alza, rincorre il carrello-bar, torna con delle patatine, una bottiglietta d’acqua e un caffè. “Dovrei dimagrire, ma non ho fatto colazione”. Lo dice ad alta voce e guarda la nonna del bambino che mi sta accanto. Lui gioca senza sosta con un videogioco, fa correre veloce la sua macchinina. La nonna è rispettosamente grossa. “Cosa dovrei fare io? Buttarmi giù dal treno”? Giusta osservazione. Ma la signora-delle-patatine a quel punto ha trovato il modo per raccontarsi. Spiega di aver perso 30 chili in 5 mesi, con una dieta fai-da-te, dice di essere arrivata all’anoressia, di esserne uscita grazie ai figli che a un certo punto hanno detto basta e hanno iniziato a portarla nei ristoranti più buoni, per farla mangiare. “Mangiavo una mela e piangevo”, dice. Ha i capelli ricci e biondi, ma tinti. Un maglione con il collo alto, jeans e stivali. Ora ha ripreso 10 chili, ma comunque ne vorrebbe perdere almeno 5. Pancia e viso, spiega, non è che è mai riuscita a farli sembrare meno grossi.  Erano più pelle senza forma, a un certo punto. Ora. Ora sembra una donna normale, le darei 50 anni. E infatti poco dopo parla della festa per il suo compleanno, ne fa 49. Ho sbagliato di poco. Racconta ancora un po’ la sua storia alle due donne (madre e figlia) e quindi nonna e madre di questo bambino con gli occhiali e la maglietta a righe, che sembra immerso nel suo mondo. Poi torna il silenzio.

Genova si avvicina. La galleria. Sono nel corridoio, continuo a leggere, vorrei arrivare alla fine del capitolo. Non mi va di aspettare guardando fuori dal finestrino dove c’è solo nero. Così leggo.

“Tu ne peux pas passer”, non puoi passare e fa cenno a una grossa valigia su cui ha appoggiato anche il suo borsone. E’ lo stesso ragazzo di prima. Ecco, a lui non so dare un’età. Potrebbe avere trent’anni, come di meno. Ha una giacca pesante, forse troppo grande, jeans scuri. So che non devo dare troppa confidenza, non per paura, ma perché ha un modo di guardare che mette a disagio. “ça ne fait rien”. Comunque gli rispondo. “Alors tu comprends le français”. “Un petit peu”. Torno a leggere. Allunga una mano e tocca la mia mano sinistra, quella che regge il libro. Come poco prima il controllore aveva toccato il suo ginocchio, per svegliarlo dal sonno, così mi ha svegliata dal mio libro. “Je t’aime”, mi ha detto. “C’est trop”, gli ho risposto io, è esagerato. Insomma, non si possono sprecare le parole in questo modo, penso. Lui sorride. “Alors tu ne croix pas au coup de foudre…”. E’ deluso. No. Sempre in francese gli rispondo che non credo al colpo di fulmine. “Tu es libre de croire ce que tu veux”. Sì, credo anch’io di essere libera di credere a quello che voglio.

Naisvill

niceville

Domenica mattina. Sono quasi le 11.30. Aspetto il treno per Genova, seduta su una panchina della stazione di Pavia. Ho deciso di non comprare il giornale e un po’ mi sono stupita di me stessa. La domenica mattina compro sempre La Stampa, perché non posso mancare Gramellini e Spinelli che si guardano nelle pagine centrali. Invece no. Domenica sono passata davanti all’edicola e sono andata oltre. Così sulla panchina leggevo “Il caffè di Sindona”. Ed ero piuttosto concentrata, cercavo di non mangiarmi le parole. Ero immersa nelle pagine ok, però non ancora isolata dal mondo, insomma dovevo comunque prendere un treno, non potevo perdermi. Poi l’ho sentito, ancora. Lo speaker che annunciava il mio treno. “E’ in arrivo sul secondo binario il treno per NAISVILL”. Sì, ecco è questo il problema. Il mio treno arriva fino a Nizza e Lui, misteriosa voce fuori campo, si ostina a pronunciare “NAIS” la scritta in francese “NICE”. Dico “si ostina” perché non è la prima volta. Potrebbe banalmente chiamarla Nizza…

Quando sento la sua voce comunque mi alzo, perché, pronuncia a parte, il treno è quello.

 “Scusa, ma perché lo dice così?”. Me lo chiede un ragazzo. Tiene in mano il mio giornale locale, ha un grosso sacco-zaino, alto, magro, di colore, i capelli ricci ricci corti, sulla trentina penso. Gli rispondo che non lo so, che però non è la prima volta, che pronuncia all’inglese anche se ovviamente la parola Nice è in francese. “Forse non sa cosa significa”, mi risponde. Già… forse non lo sa. “Be’, buon viaggio”, mi sorride. Io ricambio, e salgo sul treno che porta fino alla “Città carina”, come da traduzione dello speaker pavese. Quando scendo a Genova Nizza è tornata ad essere francese, ha perso la sua inglesità.

“Signorina, le devo raccontare la mia storia”

stazionepanchina“Che cosa sta leggendo signorina”?
“E’ un libro sulla storia d’amore tra il pittore Boccioni e una principessa romana”.
“Non lo conosco, lui”.
“E’ un futurista… hanno ritrovato delle loro lettere”.
“Ma allora è una storia vera… sono belle le storie d’amore. Signorina, allora le devo raccontare la mia storia”.

Così questa signora con i capelli bianchi bianchi si è seduta sulla panchina accanto a me, che aspettavo il treno. Il viso pieno di rughe, un maglione nero, la sottoveste scura usata come una gonna. Un po’ matta forse, non so. Aveva voglia di raccontarmi la sua storia, e nelle stazioni la memoria scorre lenta sui binari.
Questo è il suo racconto.

Era il 19 agosto del 1986. Io avevo 65 anni. Mi ero unita a una comitiva che andava a Medjugorje. Non conoscevo nessuno bene, amici di amici, così quando siamo arrivati lì, e allora non c’erano guide turistiche, la chiesa non aveva ancora detto niente di ufficiale su quel posto, non ci ho pensato due volte, ho lasciato gli altri e ho iniziato a salire sulla collina. Ricordo una donna vestita di nero, mi ha parlato della sua Ivanka, non aveva più la mamma. Lei vedeva la Madonna. Camminavo su questo sentiero, in mezzo ai prati, c’erano delle croci bianche sul cammino. Poi a un certo punto tutto è diventato azzurro, non c’erano più prati, non c’era più niente, era tutto azzurro e in alto vedevo una luce circolare, come un disco più chiaro che si avvicinava a me. Ho avuto paura di morire. Ho messo una mano sulla testa, e mi dicevo che sarei morta così da sola, in questo posto lontano. E poi quando tutto è finito ho avuto paura di essere diventata pazza. Quando sono scesa ho fermato una delle bambine che vedeva le apparizioni. Ho raccontato alla più grandicella quello che avevo visto, per capire se ne sapevano qualcosa. Lei mi ha risposto: “Stasera alle 18 ho appuntamento con la Madonna, poi ti faccio sapere”. Loro parlavano così, come fosse una cosa normale. La mattina dopo mi ha vista in strada, dal vetro di casa sua. E’ uscita, mi ha appoggiato la mano sulla spalla e mi ha detto, seria: “Devi pregare. La Madonna ha detto che devi pregare tanto, poi un giorno capirai perché”.

Io ho pregato, e pregavo e passavano gli anni e non capivo. Ho pensato di essere diventata matta, quasi stavo andando da un medico. Ma poi ho lasciato perdere. Pregavo e non capivo. Fino a quella mattina, erano passati cinque anni da quando ero andata a Medjugorje. Stavo camminando su un marciapiede, e a un certo punto ho sentito solo un dolore fortissimo. Una ruspa aveva iniziato a muoversi all’indietro e mi stava schiaccianndo. E’ arrivata fino al collo e in quel momento è passata un’ambulanza. Ho avuto paura di morire, ero sicura che sarei morta su quella barella. In ospedale mi hanno operata, mi hanno tolto la milza e il pancreas. Ero piena di tubi, sono stata giorni e giorni in rianimazione. I medici passavano e sentivo che dicevano che non potevano fare nulla. Poi mi hanno operata ancora. Avevo un braccio spaccato in due punti, sangue nei polmoni, e ogni costola del mio torace era stata schiacciata. Sono passati altri dodici giorni in rianimazione, lo ricordo con precisione. Poi un giorno ho chiamato il medico. Gli ho detto che stavo bene, che volevo mangiare, che avevo fame. Gli ho detto che volevo andare a casa. Lui mi ha detto che era impossibile, mi ha elencato tutto quello che avevo. Non si poteva, sarei morta. Ma io non potevo più stare lì, sentivo di stare bene e ho firmato il foglio per uscire. In auto, mentre mi riportavano a casa, mi sono messa a piangere. Avevo capito. Quel giorno era il 25 di giugno, il giorno che la Madonna lascia ogni mese il suo messaggio. Quel giorno ho capito perché mi aveva detto di pregare. Mi ha dato la grazia, io dovevo essere morta e invece mi ha fatta vivere. Il sangue nei polmoni è andato via da solo in due giorni, le costole non so come si sono aggiustate. E il braccio… le radiografie dicono che è rotto, ma io lo muovo, mi attacco all’autobus, afferro gli oggetti. Lo muovo come se niente fosse. Solo adesso che ho 84 anni fa un po’ male, ma con questo braccio spaccato posso fare tutto. Io ho avuto paura di essere pazza, poi tanti anni dopo la chiesa ha riconosciuto quelle apparizioni. E ci sono dei filmati. In quel cielo succedono cose strane. E io l’ho visto.

Pavia-Genova alla bolognese

minibasketAlzo lo sguardo dal mio giornale e curioso tra le facce degli altri passeggeri. Sono sul solito treno delle 11.35 della domenica mattina, quello che da Pavia mi porta a Genova. Non metto la musica nelle orecchie, mi lascio libera di ascoltare quello che raccontano. Sono circondata da quattro ragazzini di 12-13 anni, stanno andando insieme ad un allenatore a Sanremo. Quando poi mi coinvolgono nella conversazione, mi spiegano che sono la squadra maschile dell’Emilia Romagna per il Jamboree di Sanremo, un torneo di minibasket con 12 squadre in rappresentanza di altrettante regioni. “Vi hanno scelti anche per il carattere, per come sapete stare in campo”, spiega Federico, l’allenatore, quando Luca gli chiede perché non hanno preso “il biondo”. Uno bravo, mi dicono. Ma loro scherzano, “noi siamo i migliori”. Alcuni giocano nelle giovanili della Fortitudo. Due sono di Bologna, uno di Ferrara, l’altro non so. “Ma tu andresti a vivere in un’altra città se la società ti chiama?”, chiede sempre Federico. Perché i ragazzi iniziano a raccontarsi di loro coetanei, anzi forse con qualche anno in più, che sono andati a vivere lontano da casa, “e gli pagano tutto, la scuola e anche i vestiti”, sottolineano. “Be’ a Siena non ci andrei, però andrei in America”, risponde uno dei due più piccolini. “Vuole giocare nei Boston Sceltics“, aggiunge al suo posto uno alto alto, con i capelli tirati indietro da un cerchietto. E ridono per quella “sc” che con l’inglese non ha niente a che vedere, ma che è marchio indelebile della sua bolognesità. Mi spiegano che si sono conosciuti solo quella mattina, giocano tutti in società diverse. “Veramente io e lui ci siamo conosciuti sul campo”, mi dice un piccolino con gli occhi chiari. Hanno una parlata che fa sorridere, e loro sono simpatici. Iniziano a prendersi in giro sui voti della pagella. Italiano mi sembra essere il punto debole di tre su quattro, il quattro che subito etichettano come “secchione” ha preso 10. Anche l’allenatore non li conosceva, se non per le selezioni. E’ un istruttore nazionale di minibasket, seguirà i ragazzi e le ragazze, che ridono e scherzano  nello scompartimento a fianco, per tutta la settimana. Tengo sulle ginocchia il mio giornale, ormai lo lascio lì aperto a coprirmi le ginocchia. Mi sento bene, mentre sono lì seduta in quello scompartimento, mi sento bene. Fanno casino, mettono al massimo il volume del cellulare per sentire le canzoni di Michael Jackson. E’ quasi mezzogiorno e iniziano a ripetere in continuazione che hanno fame. Alle 12.20 in punto Federico li fa mangiare. Tirano fuori i panini, si dividono le brioches. Si respira un’aria pulita, fresca. Sono vivaci, sanno stare insieme. Mi sembra di vedere quanto può essere positivo per questi bambini giocare a basket. Poi ovviamente hanno preteso di sapere qualcosa di me. Io di loro a quel punto sapevo già troppe cose. Così gli racconto cosa faccio, da dove vengo, dove vivo. Mi ascoltano e mi fanno domande. Sono spontanei. Ecco, sono spontanei e questo ti fa sentire bene.

Intercity 666 – carrozza 6

Treno intercity 666 Fausto Coppi delle 18.19, carrozza 6 posto 43. Salgo a Genova. Mi guardo attorno e metto le cuffie dell’ipod. Sto così per un po’, tento di leggere qualche pagina di Firmino, un capitolo forse due poi tolgo anche la musica dalle orecchie. Lo scompartimento è pieno. Davanti a me il 44 è un signore sulla settantina, abbastanza abbronzato, curato, piccolo di statura. Accanto a lui due ragazze. Al 46 una ragazza ha gli occhi verde salvia, i capelli lunghi e ricci, l’amica è truccata, più in carne, i capelli scuri raccolti in una coda alta. Accanto a me invece c’è una signora sui sessanta. Ha grossi occhiali da sole, una borsa di paglia sulle ginocchia. La ragazza seduta accanto al finestrino invece la vedo poco, ha anche lei la musica nelle orecchie, una maglietta lilla. Quando spengo la musica mi ritrovo nei loro discorsi. Parlano di coppie e di amore.

44. Il signore è vedovo da quasi 20 anni, dice che è stata dura all’inizio e che ora un po’ si è abituato, ma che per un uomo “ritrovarsi senza la sua donna è molto più dura, perché la donna sa arrangiarsi”. Ha tre figli e cinque nipoti. Il terzo figlio – 41 anni – vive con lui, non si vuole sposare o almeno così sembrerebbe.

46. La ragazza riccia non ha nemmeno 40 anni, ha due figli, un maschio e una femmina. E’ divorziata. Interrogata dalla signora di fronte risponde che “ora sta bene e che preferirebbe fosse sparito del tutto”. Perché invece continua a vedere i figli. Non paga gli alimenti e lei non gli vuole fare causa perché anche se dovessero togliergli il diritto a vedere i figli loro comunque sono molto legati al padre, farebbe un torto ai due bambini e non a lui. Lavora nella chirurgia plastica. Dice che bisogna imparare da subito che nessuna storia è per sempre.

48. E’ l’amica della “riccia”. Molto più in carne, ha una maglietta turchese con una scollatura ampia. Ha i capelli scuri, è tagliente. Non ha figli, “io sono perfetta era un problema di  mio marito”. E’ stata sposata cinque anni, si sono separati e ora aspetta il divorzio. E’ molto critica nei confronti degli uomini e lo spunto viene proprio dal figlio 41enne del vedovo: uno che si vuole divertire.

45. La signora – ha circa 60 anni – ha la pelle chiara. Si toglie gli occhiali da sole dopo un po’ che sta parlando con le due ragazze. Ha gli occhi chiari, ma la pelle intorno – dice – è sempre stata rovinata, non dall’età, è così da sempre, “ma ormai non ha senso intervenire”. E’ una bella donna o almeno lo deve essere stata, ora ha il viso stanco. Sua figlia è separata. “Non bisogna mai chiedere i motivi, i genitori devono sapere solo fino a un certo punto”. “Ma ora sua figlia come sta?”, chiede la riccia. “Bene, meglio di prima”, la risposta che sapeva di sentirsi dire.

Binario 18

“La vita è ciò che facciamo di essa
I viaggi sono i viaggiatori”
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)

Aspetto il treno delle 20.19 da Genova Principe per Pavia. Il cielo è ancora chiaro, sono appoggiata ad un muretto. Poco lontano una ragazza sta chiudendo il bar del binario. Sono presa dall’attesa, in quella forma che ti porta a osservare. Tracce di un caffè bevuto prima di partire sono non lontane da me, un bicchiere di quelli marroncini fuori e bianchi dentro è appoggiato al mio stesso muretto. Sono in anticipo è questo il problema. Così ho tempo di guardare, è questo il bello. Due ragazze con un enorme zaino con ricamata la bandiera del Canada si siedono per terra ad aspettare il mio stesso treno. Ci sono altre due ragazze, trascinano a fatica la valigia su per le scale. Ci sono i libri, dicono. Probabilmente tornano a casa per l’estate. Cè un ragazzo, è di Milano ma è stato al mare, poi due signore straniere. Arriva un ragazzo, capelli rasati corti corti, una canotta da basket viola. Chiede dei soldi. “Vorremmo fare un biglietto in due per riuscire a partire per Torino. La mia ragazza è venuta a trovarmi due mesi, ma ora non riusciamo a comprare il biglietto”. Chiede qualche spicciolo. Il primo treno che possono prendere è quello delle 20.32 (hanno perso quello delle 20.08 che partitva dallo stesso binario, il 18). E’ un regionale costa 8,75 euro. Penso a cosa non rispondono le persone a cui chiede i soldi, a cosa pensano quando dicono “no, mi spiace”. Pensano che c’è qualcosa che non quadra, che non ha una bella faccia, che forse è una scusa. Ma il ragazzo di Milano, mentre mangia una focaccia farcita con formaggio e prosciutto, si toglie dalle spalle la borsa, cerca il portafoglio e gli dà qualche moneta. Poi la raccolta continua, su un alro binario, poi su un altro ancora. Il treno arriva puntuale, forse ha qualche minuto di ritardo, ma non è niente se penso che il treno prima (quello delle 19.19) è rimasto al binario 14 mezz’ora. Salgo sul treno, cerco il mio posto. Fuori è ancora chiaro, tra una galleria e l’altra il cielo è ancora bianco. I viaggi sono i viaggiatori, sono quello che vedono, come lo vedono, a chi lo raccontano.


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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