Archivio per settembre 2008

Il matrimonio di Lorna

Il titolo originale è “Le silence de Lorna”. Il silenzio quindi e non il matrimonio al centro del film. Perché in fondo è vero, ruota tutto intorno ai matrimoni combinati, per garantirsi la cittadinanza in un paese straniero, per garantirla ad altri, perché diventa un modo per guadagnare soldi per costruirsi un futuro, anche se significa fare affari con chi i soldi li sporca. Però prima di tutto questo c’è il silenzio di Lorna, che accetta di sposarsi con un tossicodipendente per avere la cittadinanza belga, che accetta il modo più drastico per ottenere il divorzio, e cioè far uccidere lui. Lei che in silenzio mette via i soldi, che in silenzio sogna di aprire un bar. Fino al punto in cui lei stessa si spaventa di questa mancanza di reazioni, del suo silenzio davanti a tutte queste decisioni. E così parla. Corre. Rompe la catena di accordi. Rimarrà però da sola, in un silenzio obbligato, rotto solo dalla sua stessa voce che parla a un futuro che non c’è.
Ho visto Il matrimonio di Lorna di Jean-Pierre e Luc Dardenne a Genova, al cinema Corallo, una quarantina di persone sui circa 120 posti della sala, al primo spettacolo della domenica pomeriggio, in una Genova che si prepara al Salone Nautico, che inizia a coprirsi per ripararsi dal vento. Un cinema piccolo, che ospita il film in esclusiva per Genova, anche se una prima apparizione l’ha fatta la settimana scorsa al Sivori. Bello vedere tanta gente per un film così. Perché è un film che sai già ti lascerà un senso di fastidio e amaro, una di quelle storie che non lasciano molto spazio alla speranza, e che fanno riflettere perché sono qualcosa più della trama di un film. Sono lì intorno a noi, fuori dal cinema.

Dolls, ecco l’Amore

Amore. Ecco come si racconta l’amore senza cadere nella trappola del melenso. Ecco come se ne racconta anche l’aspetto più feroce, senza cadere nel sentimentalismo. Senza dialoghi melensi, senza scene di sesso, senza usare stereotipi. Ci sono “bambole”, marionette comandate dallo stregone Amore, in balia dell’altro, delle scelte della vita. I ragazzi incatenati scandiscono il cammino tra le altre storie, le incontrano e le sfiorano. Ho visto Dolls di Takeshi Kitano in lingua originale ma sottotitolato in francese, una lingua che chiama i due ragazzi  les mendiants enchainés. Se la traduzione “mendicante” è precisa e corretta dal giapponese che purtroppo non conosco, è una scelta che rispecchia il loro stato. Vagano mendicando la vita, il perdono, cercando la ragione perduta, cercando un ricordo che possa far riaccendere il sorriso, anch’esso perduto. Con quella corda rossa che trascina foglie secche, ma lascia ben radicati i fiori. E’ una corda che unisce perché è così l’amore o forse è il senso di colpo che si maschera da amore e unisce per forza?
Poi ci sono le altre storie. La donna che ha aspettato una vita, seduta su una panchina, il ritorno del suo giovane fidanzato. Lui torna, anziano, sedotto dal ricordo di lei, dopo anni che nemmeno più pensava a quel “ti aspetterò per sempre”. E ancora la cantante e il suo fan che diventa cieco apposta per lei. Non c’è un lieto fine in nessuno di questi amori. Non c’è speranza di vita insieme. Non c’è niente di duraturo, felice, spensierato. Ma non c’è in nessun momento l’intento di strappare lacrime.
E’ bello per questo. C’è l’amore raccontato, l’amore nei suoi momenti felici e nella disperazione, con parole che sono i colori dei fiori, i silenzi, i dettagli, gli occhi, persi nel ricordo o persi nell’altro.

La scena della panchina mi ha fatto pensare subito a Bad Guy di Kim Ki Duk. Il film del regista coreano è del 2001, Dolls è del 2002. Non so se Kitano si è ispirato a Kim Ki Duk, non so se c’è un richiamo volontario. Però quelle due panchine mi sono sembrate subito vicine. Un parco a fare da sfondo, lo sguardo di lei, più perso nell’amore e quello di lui, più duro. Aspettano. Aspettano l’amore, aspettano che succeda qualcosa per essere tolti di mezzo. Il golfino chiaro su un abito colorato, i capelli pettinati, sono due brave innamorate. Che aspettano la vita sedute su una panchina.

Tu mi fai girar, come fossi una bambola

Patty Pravo era sicura, non voleva essere una bambola, non voleva essere “tra le dieci bambole che non ti piacciono più”. Questa, capelli rossi legati in una coda e maglietta gialla, di sicuro non piace più al suo ragazzo. Se ne sta lì, appoggiata alla ringhiera di un palazzo, in una Pavia che non fa caso a una “rossa” gettata tra i cassonetti, o forse messa lì per lanciare un messaggio a qualche burattinaio maldestro in amore. O per diventare l’ennesima ragazza di strada, nascosta ai più, ma tristemente al suo posto. Sa di film horror tra i più trash, ricorda Chucky, la bambola assassina del 1988. Eppure, senza gambe, seduta sul muretto, gli occhi truccati e i capelli arruffati ma comunque pettinati ha un suo perché. Ecco, perché è lì?
Cercasi proprietario disperatamente.

Richiesta di riscatto per i libri rapiti

Capita di aver bisogno di un libro e di andare in biblioteca a cercarlo. Capita di trovare personale cordiale, che ti segue nelle pratiche di ricerca e ti aiuta a trovare quello che cerchi. Capita però anche che i libri che hai sempre preso in prestito un giorno spariscano. Capita a Genova. I libri “ballerini” protagonisti di questa storia sono dedicati ai francobolli. Sono libri del 2003. “Li ho sempre presi in prestito senza nessun problema”, mi raccontano. Fino all’ultima volta. Stessa richiesta, risposta diversa: “I libri sono in prestito”. Strano, pensa chi quei libri li consultava, perché pochi si interessano di francobolli. Però, può succedere. Solo che passano tre mesi. Strano, torna a pensare l’utente della biblioteca. Allora si cerca di capirci qualcosa. “Hanno controllato in video e mi hanno detto che quei libri non li avevano”. Ma per fortuna, per poter studiare i francobolli a casa, l’utente si era fotocopiato alcune pagine. Ecco la prova che quei libri in biblioteca c’erano. “Allora provi ad andare allo scaffale”, il suggerimento. Ma i libri proprio non ci sono. Inghiottiti dagli scaffali? Ostaggio di qualche utente? Rapiti da un filatelista? Si sale di livello per svelare il mistero, ma spiegazioni non ce ne sono. Anzi, una risposta arriva: “Sono andati persi”. Cavoli. Davvero si può perdere un libro di francobolli? Tutti i passaggi da un utente all’altro sono registrati, arrivano minacciose lettere a casa se si è in ritardo con la restituzione del libro preso in prestito. E poi, i libri se si perdono si cercano. O no? Strano, viene ancora da pensare. Nel vedere un volto stupito, un po’ amareggiato, qualcuno si sente in dovere di dare la sua interpretazione. Le parole di un dipendente, però non danno sollievo: “Sa – spiega – siete in due a chiedere quei libri, probabilmente rompendo le scatole li hanno fatti sparire”. Ecco, li hanno fatti sparire. Svelato il mistero. Che sia stata una battuta? La presa in giro di un simpaticone davanti a un volto deluso davvero? Che sia tutto uno scherzo? Che siano spariti davvero? Le ricerche proseguono.

Il vento fa il suo giro

Il vento fa il suo giro, perché le cose si ripetono, le tradizioni si ripropongono. Ma poi c’è qualcosa che si unisce al passato portato dal vento, è il rifiuto per gli altri, per chi indietro vorrebbe tornarci davvero, per chi la pensa in modo diverso. Per il Festival dei diritti a Pavia hanno proiettato il film di Giorgio Diritti. Ingresso gratuito. La sala era piena, tutte le poltrone occupate, persino quelle scomodissime della prima fila. Tanti seduti per terra ai lati della sala, con la schiena appoggiata al muro, tanti anche in piedi. Perché questo film ha avuto una vita difficile, dalla produzione alla distribuzione: lo hanno voluto in pochi, poi quando il passaparola si è fatto sentire, il vento è cambiato.
E’ un film che fa dire “è realistico”. Ma detto così non significa niente, se non che i luoghi, le luci, i volti lo fanno sembrare quasi un documentario. Ha senso il realismo del film nella reazione di chi mi stava accanto. Chi conosce la realtà della montagna, le persone, il carattere, chi conosce cosa significa vivere in un paesino piccolo, in una montagna lontana, tra il verde delle valli ha finito il film con le lacrime agli occhi. “Per chi vive in città è un bel film, ma per me è devastante”. Perché la cattiveria delle persone corrisponde a verità, perché quel modo di pensare solo al proprio terreno e di fingere gentilezza per studiare chi si ha di fronte ho capito non essere solo una caricatura del regista. Ecco il realismo. Lo può dimostrare solo chi vive le stesse sensazioni raccontate dagli attori, per tutti gli altri diventa solo il gioco del Piccolo critico cinematografico.

I tetti di Genova

Le città del futuro sono quasi sempre rappresentate come la somma di livelli di una città che cresce un piano alla volta. Dallo strato più basso a contatto con la terra a quello più ossigenato con il cielo a fare da coperchio. A Genova non ci sono civiltà del futuro né navicelle spaziali che salgono da un livello all’altro, ma c’è una seconda città “aerea”. E’ la Genova dei tetti e dei terrazzi, sono i tetti del centro storico. E’ come vedere una città diversa che guarda dall’alto la sua prima metà. E’ una seconda distesa di spiagge: manca la sabbia e in effetti anche il mare, ma ci sono le sdraio e i lettini, ombrelloni e tavolini, piccole piscine. Ci sono finestre che si aprono sul tetto di ardesia, ma anche piccole aperture che danno accesso a spazi di un metro per un metro dove si riesce a far stare una sedia, un comodo cuscino e un’immancabile pianta dalle foglie larghe e verde smeraldo. Ci sono piante arrampicanti che rendono verdi i pergolati di legno, c’è chi legge il giornale e chi fa colazione, chi dà l’acqua a un albero di limoni. I bambini giocano con i nonni a ricreare il mare tra le piastrelle del terrazzo: hanno un sacchetto pieno di sassi e la piscina gonfiabile li fa sentire come in uno degli stabilimenti della Genova-bene. Sui tetti  si sente il profumo delle grigliate, di chi cuoce salsiccia e bistecca per una cena tra amici sotto le stelle, con la lanterna che fa luce anche lì. Ma c’è anche il profumo di pane caldo e focaccia, perché il camino del panificio sotto casa è lì a pochi metri e a volte anche quello di sughi o peperoni, perché dalle finestre pranzo e cena si condividono negli odori che si diffondono nell’aria. Si sentono le navi del porto in partenza dai tetti del centro storico. Si sentono anche gli annunci, se il vento si diverte a portare in giro i suoni. Ci sono antenne della tv attaccate alle ringhiere, e una distesa di antenne paraboliche: non servono solo per vedere le partite di calcio, sono il contatto con la propria terra dei tanti stranieri che abitano nel centro. Ma ci sono anche statue e fontane che nemmeno potresti immaginare, perché dal basso, dai vicoli stretti e scuri, non credi possibile che ci sia il cielo, e che qualcuno sotto il cielo possa aver costruito un piccolo mondo illuminato.

Scusa, ma sei Kakà?

Kakà guida un furgoncino, ma la sbarra abbassata del passaggio a livello lo costringe a fermarsi. Su quel furgoncino fa salire un bambino che gioca a calcio lì vicino. Insieme visiteranno diversi posti, portando in giro trionfanti lo spirito – quello positivo – del calcio. E’ il nuovo spot della Ringo che vede ancora una volta protagonista il pallone d’oro 2007. Il passaggio a livello che si vedrà in televisione è quello tra Borgarello e San Genesio, provincia di Pavia. E le riprese sono del 16 settembre. Inutile dire che molti curiosi e tifosi si sono fermati ad aspettare Kakà. La troupe aveva chiesto l’autorizzazione e la relativa chiusura del tratto interessato dalle 14 alle 20. E’ arrivata, con il regista Angel Garcia, intorno alle 17, quando chi sperava di strappare un autografo al giocatore brasiliano era già lì da qualche ora. Ma hanno aspettato inutilmente. Perché? Perché al posto di Kakà è arrivato un sosia che ha girato le scene alla guida del pullmino al posto del giocatore. Il vero Kakà ha girato invece altre parti a Milano in mattinata. Doveva essere a Borgarello per continuare lo spot, ma nel pomeriggio è arrivato lo stop della squadra. Ed è entrato in scena il sosia, che come si vede dalla fotografia scattata ieri pomeriggio è molto somigliante. Certo, le telecamere incuriosiscono sempre e vedere un ragazzo in tuta grigia praticamente identico a Kakà fa sempre un po’ effetto e fa sentire curiosi e tifosi spettatori in prima fila del mondo delle star. Il pomeriggio passa e si ha qualcosa da raccontare, ma resta un po’ di delusione. Soprattutto per i bimbi che si aspettavano il giocatore e quasi non potevano crederci di averlo lì a due passi da casa. E infatti sono rimasti a bocca asciutta. Sicuramente rispetto al tempo da dedicare agli allenamenti (visto anche l’inizio di campionato del Milan) quello per uno spot pubblicitario è meno importante, ma ci sono i soldi (su un blog si legge di un compenso di 900mila euro, ma sono voci dal web) e soprattutto i sorrisi smorzati di chi ieri era a Borgarello e davanti allo spot ora storcerà il naso. Ma il sosia-controfigura era già previsto? O era pronto a intervenire per sostituire il vero Kakà in caso di impegni? Ha lo stesso valore se il protagonista non è lui? E che senso ha mettere la sua faccia solo per alcune scene? Non so, sono dubbiosa. E chi aveva commentato lo spot precedente (alcuni stralci da un forum li riporto sotto) cosa penserà?

questo spot è fikissimo…cm anke kakà……..kakà 6 mitico!!!!!!!!!
senza di te questa publicità era uno skifo
(marzia)

questa pubblicità è fantastica x il semplice fatto che c’è Kakà!!!!! Non ci sono parole x descriverlo… Kakà è la perfezione fatta a persona. (serena)

Ciao Kakà, sono una tua grandissima fan!.volevo solo dirti che sei bravissimo e che sei il numero uno al mondo.Ho visto la pubbliità della ringo e devo dire che sei bellissimo.Ti guardo sempre sulla tv quando ci sono partite del milan (iery)

Dormire fa rima con amare

“Fare l’amore con una donna e dormire con una donna sono due passioni non solo diverse ma quasi opposte. L’amore non si manifesta col desiderio di fare l’amore (desiderio che si applica a una quantità infinita di donne) ma col desiderio di dormire insieme (desiderio che si applica a un’unica donna)”.
(Milan Kundera)

Ho finito di leggere “L’insostenibile leggerezza dell’essere”. Mi mangio le mani per non aver sottolineato le parole che mi hanno colpita, ma non mi piace scrivere sui libri. Mi mangio le mani per non averne preso nota sul block notes che porto sempre con me, ma non riesco a fermarmi se mi piace quello che leggo. Così non so elencare con la giusta precisione le parole che mi hanno aiutata a pensare, vorrei aver ricavato da questo libro una sorta di decalogo da tenere a mente con le parole scelte dall’autore. Non so perché ho aspettato tanto a leggerlo, forse perché in troppi mi dicevano “è bellissimo”. Ora ho capito. C’è la filosofia dell’amore e della vita, la spiegazione di tanti dubbi, e semplicemente tanti dubbi. Tra leggero e pesante scegliere non è sempre la possibilità che ci viene concessa. Si può essere sempre in bilico tra il positivo e il negativo. Questo è un libro fatto di odori che non se ne vanno, di rumori, di urla, di sogni e provocazioni, fatto di dolori del corpo in risposta a ferite dell’anima.
Il desiderio di dormire con una donna come definizione dell’amore mi ha fatto alzare gli occhi dal libro. Le parole sono di Tomas, che di donne si circonda, ma che non le lascia mai dormire nel suo letto, e mai si ferma a domire con loro. Solo con Tereza scopre che quel desiderio di addormentarsi con lei e di svegliarsi con il suo viso davanti agli occhi è il vero senso dell’amore. Dormire insieme penso sia la forma più dolce dell’amore, quel riuscire a rilassarsi che troppo spesso è negato. E’ condividere. Mi chiedo però se sia davvero limitato a una sola persona.

Avvolta in un accappatoio giallo

Leggere, chiudere gli occhi, pensare. Poi dormire, guardare la pioggia che cade senza sosta sull’acqua della piscina. Alzarsi, entrare in silenzio nella vasca a 36 gradi, sentire l’acqua che quasi ti schiaccia lo stomaco e ti pesa sulla pelle prima di riuscire ad abituarsi a quella temperatura. Mettere la testa fuori dall’acqua, dove i 13 gradi esterni incontrano i 36 interni e sentire la pioggia che colpisce le guance, il naso, le labbra, mentre il vapore ti tiene al riparo dal resto del mondo. Avvolta in un accappatoio giallo, troppo grande, ma capace di avvolgerti come una coperta.
Le terme. (Montegrotto – Padova, hotel Antoniano). Un fine settimana in cui non si deve fare nulla, gli altri si prendono cura di te. Si preoccupano se non mangi il secondo (il cameriere Maurizio era molto attento a non deludere i clienti), ti chiedono quale dolce hai scelto per la cena, ti servono il vino e ti coccolano dall’antipasto al caffè. Tre giorni senza “tutto il resto”, senza il telefono come ossessione, senza computer, impegni, scadenze. Tre giorni insieme ad un’amica con cui condividere la sensazione di poter stare così, sospese in un dolce far niente temporaneo, attente e consapevoli che la parola giusta sia “temporaneo”. Tre giorni a ridere di scemate, a indovinare le canzoni anni Sessanta del piano bar, tre giorni in silenzio compagne di lettino, con i nostri libri e i nostri pensieri. Non con tutti si può stare così.

Quelli che… Catanzaro città

Quelli che suonano il clacson agli incroci, per “avvertire” che stanno passando.
Quelli che vanno in motorino senza casco… e quelli che su una vespa salgono in quattro: mamma, papà e i due bambini.
Quelli che in macchina tengono una finta cintura di sicurezza: la inseriscono e così il segnale acustico (che avverte “il passeggero non si è allacciato la cintura”) tace, e chi siede accanto al guidatore può assecondare il suo desiderio.
Quelli che attraversano senza nemmeno guardare e solo per salutare un amico dall’altra parte del marciapiede… e in effetti le strisce pedonali ci sono, ma i semafori no.
Quelli che al mercatino dell’usato vendono i vestiti di H&M e Zara, perché lì le due catene internazionali non ci sono e sono diventate griffe come Dolce e Gabbana e Valentino.
Quelli che una brioches (buonissima, soffice e grande) e una granita di mandorle paghi solo 2 euro e 90. E il caffè costa ancora 50 centesimi, in pieno centro.
Quelli che anni fa hanno buttato giù alcuni palazzi del centro storico per costruire palazzi di vetro. E ora la cupola del Duomo si specchia sul lato opposto della strada.
Quelli che hanno un centro storico nascosto, piccoli paesini dentro una grande città, ma pochi ne conoscono i segreti.
Quelli che dicono “qui regna l’anarchia”. Fatta non tanto di indifferenza, quanto di rassegnazione.
Quelli che sui giornali mettono i nomi dei morti in un incidente stradale sbagliati.
Quelli che hanno scelto di restare e amano la loro città tanto quanto la detestano.
Quelli che da anni frequentano lo stesso locale, “perché qui quando trovi qualcuno che sa fare il suo mestiere ci torni e te lo tieni stretto. Vale anche per idraulici e dentisti, perché in generale manca la professionalità” – così mi spiegano.
Quelli che come me osservano Catanzaro per pochi giorni, che ritrovano le strade e i ricordi di vacanze estive lontane. Che vedono il caos della città, ma anche un modo di vivere più distaccato, che porta a non chiedersi perché e a suonare il clacson.


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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