Archivio per marzo 2010

Da Israele alla Russia, passando per Mortara

Andata.

“C’è una signora col passeggino che deve scendere, aspetti!” Il treno mentro lo dice inizia a muoversi. “La signora ormai scenderà a Genova”. Dialogo ragazza-capotreno.
Nel mio scompartimento solo io alzo la testa. Davanti a me un ragazzo che sembra uscito da un telefilm americano ascolta l’ipod. Non sente. Un signore sulla sessantina non dice niente. E poi c’è una famiglia israeliana. Etichetta sulla valigia. Il figlio grande, sulla ventina, mi lascia il posto (problemi di prenotazioni). Jeans, occhiali da sole sulla testa, capelli due millimetri, faccia gentile. Ha le scarpe da ginnastica nuove: bianco pulito e lacci verde chiaro. La figlia più piccola (si chiama Slil, “come il suono di un campanello” dicono, anzi mimano) ha 12 anni. La mamma che sa pochissime parole di italiano disegna i due numeri sul palmo della mano. Non va a scuola perché ci sono le vacanze. E’ bionda, piena. Ha il rimmel blu. Il marito ha i capelli ricciolini lasciati un po’ lunghi, tiene gli occhiali da sole, la maglietta gialla è attillata. Prima di scendere metterà un cappotto blu, fuori stagione, sembra quasi non essere suo. La ragazzina ha occhi furbi e svegli, una ciocca di capelli biondi su riccioli scuri. Tiene stretto un asino di peluche. Guardano fuori dal finestrino avanzi di neve. “Da voi nevica?” chiede il sessantenne. “Solo per un mese”, risponde il capofamiglia in inglese. L’altro capisce “solo un giorno”. Si parlano in lingue diverse. Mi offrono dei wafer al cioccolato. Sono affascinati dal panorama. Quello che vedono dal finestrino è una conca di verde intorno a Ronco Scrivia. Eppure ne sono incantati. Nello scompartimento accanto al mio non hanno la mia stessa fortuna (mentre sento una signora – che poi scoprirò dopo essere di Mortara – che chiede “com’è finita poi roma-inter?” penso agli scompartimenti come a delle stanze. Sì, penso proprio “che voce odiosa ha la signora nell’altra stanza”). Lì viaggia una coppia di Voghera che sta andando a Genova, hanno la barchètta a Sestri. La mortarese li martella. Occhiali scuri, grossi. Over 60, forse di più, ma tenuta bene. Racconta di tutto. E’ la sola a fumare in famiglia, un pacchetto al giorno (“l’altra sera ho fatto finta di mettere a posto le cose in cucina e sono andata a fumare di nascosto sul balcone”). Usa il treno abbastanza spesso. “Ma che paura ho avuto a Vigevano. Aspettavo il treno delle setteeunquarto quindi neanche tanto tardi e continuava ad avvicinarsi gente hai-da-accendere, hai-50-centesimi. Nemmeno a Porta Genova a Milano è così…”).

Ritorno.

Leggo Salomov. Si siedono due musicisti. Uno grosso, imponente, scenderà poi a Pavia. L’altro ha un accento straniero, ma parla un italiano perfetto, solo ogni tanto prende tempo per cercare la parola giusta. Camicia bianca, completo scuro. Scenderà a Milano. Ha lavorato alla Scala, o forse ci lavora ancora non riesco a capirlo. Si dice soddisfatto perché ha suonato quasi con tutti i direttori d’orchestra. Li elenca. Un peccato non conoscere e non riconoscere nemmeno un nome, ora saprei dire chi è uno stronzo, quale invece è bravissimo ma tratta male la gente, e chi a volte se ne frega e anche se qualcuno sbaglia fa finta di niente. A Tortona (il 1538 da Genova non ferma a Voghera) sale una famiglia. Sono russi. Mamma (piccolina, capelli corti scuri, occhialini), papà (il maglione a collo alto infilato nei pantaloni, la giacca lunga, il cappello di pelle nera, baffi biondi quasi arancioni), figlia (piumino rosa, capelli chiari). Lui curiosa sulla guida (vedo una foto di piazza De Ferrari). Sono stati all’outlet di Serravalle. Hanno diversi pacchi, hanno comprato le scarpe da Ferragamo. Scenderanno a Milano. Cosa racconteranno dell’Italia?

Pochi secondi di silenzio

Camminare e vedere in fondo alla strada una nebbia vaporosa, pioggia sottile. Le luci dei lampioni, le insegne delle banche. E poi, per pochi secondi, sentire solo le gocce sull’ombrello e il rumore dei miei passi, sull’asfalto bagnato. Nemmeno un’auto di passaggio, una voce, un suono. Niente. Il silenzio. E io nel mezzo.

Da Crainz ad Humpty Dumpty

– Quando io uso una parola – disse Humtpy Dumpty in tono d’alterigia – essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno.
– Si tratta di sapere – disse Alice – se voi potete dare alle parole tanti diversi significati.
– Si tratta di sapere – disse Humtpy Dumpty – chi ha da essere il padrone… Questo è tutto.
Alice era così impacciata che non disse nulla, e dopo un minuto Humtpy Dumpty ricominciò:
– Alcune di esse sono intrattabili… specialmente i verbi sono orgogliosissimi… con gli aggettivi si può fare ciò che si vuole, ma non con i verbi… Però io so maneggiarle tutte quante. Impenetrabilità! Ecco che dico!
– Vorreste dirmi, per favore – disse Alice – che cosa significa questo?
– Ora parli come una bambina ragionevole – disse Humtpy Dumpty, con un’aria molto soddisfatta – Intendevo con «impenetrabilità» d’averne avuto abbastanza di questo argomento e che sarebbe stato opportuno che mi avessi detto che pensavi di far dopo, perché suppongo che tu non intenda fermarti qui vita natural durante.
– È un voler far significare troppe cose a una parola sola, disse Alice in tono pensoso.
– Quando a una parola faccio far tanto lavoro – disse Humtpy Dumpty – la pago di più.
– Oh! – disse Alice, troppo confusa per fare anche una sola osservazione.
– Ah, dovresti vederle venirmi intorno la sera del sabato – disse Humtpy Dumpty, gravemente scotendo la testa da un lato all’altro – per aver la paga.
(Alice non s’avventurò a chiedergli come le pagasse, e così io non posso dirvelo).

(Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, Lewis Carrol)

Cercavo questo dialogo da anni. L’ho ritrovato leggendo Le regole nel paese di Alice di Guido Crainz (Repubblica, 16 marzo 2010). Anche se con un altro significato. Ma è proprio questo il punto. Quando avevo letto Carrol mi aveva colpito la convinzione di poter influenzare le parole. La certezza di poterle usare a mio piacimento, di piegarle al mio volere, e quindi andando anche oltre il significato condiviso. Un potere incredibile. Che rende invincibili. A 18 anni mi bastava l’idea di poter usare la mia scrittura in qualche modo. Adesso, la teoria di Humpty Dumpty applicata a Silvio Berlusconi e che sintetizza quella che Crainz definisce “la democrazia sostanziale e non formale” mi sembra più matura. Pensandoci, è una conferma che da una stessa frase si possano trarre ragionamenti diversi (astratto il mio, applicativo quello di Crainz). Ma anche che le parole hanno davvero un ruolo decisivo. Così ho trascritto il dialogo al volo, l’ho “buttato” su Google e ho ritrovato l’intero capitolo. Che non riuscivo più a trovare, perché ormai avevo plasmato le parole del dialogo in modo da non farmi bastare “parole” e “potere” come elementi chiave per avere buoni riscontri da un motore di ricerca. Non ricordavo nemmeno Humpty Dumpty, quell’uomo-uovo arrogante e un po’ saccente capace di giocare con parole semplice o incomprensibili. Ricordo che al liceo da questo dialogo di Lewis Carroll ero rimasta colpita. Mi sembrava di aver trovato in un contesto tendente al magico la prova che sì, le parole sono importanti e che possono essere strumento, una massa da tenere tra le dita per giocare a inventare e dare significati.

Pronto? E’ il ministero dell’economia. Ah.

Sono le dieci di sera, passate da qualche minuto. Suona il telefono del caposervizio in redazione. L’ora non è delle migliori. “Era il ministero dell’economia”, ci riferisce dopo poche frasi con il suo interlocutore. L’addetto stampa voleva sapere che risalto avremmo dato alla notizia su Tremonti (nb: ieri sono state pubblicate le dichiarazioni dei redditi dei parlamentari. Il ministro Tremonti nella dichiarazione dei redditi riferita al 2008 ha dichiarato 39.672 euro, pochi rispetto ai 4,5 milioni dell’anno scorso. “Colpa” degli oneri deducibili ha spiegato, quei 137.225 euro che hanno fatto scendere  così tanto l’imponibile). Notizia curiosa dai, il ministro dell’economia “povero” è un titolino abbasta divertente. “Non vorrete mica aprirci il giornale, no?” Ha chiesto preoccupato l’addetto stampa, che avrebbe voluto conoscere anche il contenuto dell’articolo (“lo sapete no, che a metà giornata l’Ansa ha aggiustato il tiro”?). Ma perché tanto interesse? “Be’, è un vostro concittadino…”.

Ore 22 di un giornale di provincia. L’immagine è tutto. Soprattutto per un ministro, soprattutto se di lui leggono i suoi vicini di casa, i suoi (ex) colleghi in università che con lui condividono ancora formalmente lo studio (vedi foto).
Ore 22 di un giornale di provincia. Triste tentativo di un addetto stampa di limitare gli effetti di una notizia e di condizionarne l’uscita.
Ore 22 di un giornale di provincia. Noi ci siamo fatti una risata. Non credo che il ministero si sia messo a chiamare i circa 150 quotidiani che escono ogni mattina in edicola. “Be’, però  Tremonti è un vostro concittadino…”. Ah, già.

Se gli studenti non sanno più leggere e scrivere, ma le ore di lezione si tagliano comunque

Aula Magna del liceo scientifico Taramelli, nel cuore di Pavia (“quello che dicono tutti “ah il Taramelli” sono tutti cattivissimi”, ci scherza sopra la vice preside). I genitori sono tutti seduti per l’open day. Devono decidere – si spera insieme ai figli – la scuola superiore. La riforma Gelmini non lascia molte speranze: la seconda lingua straniera non si farà, se non a pagamento e al pomeriggio. Poi sì, ci sarà più matematica e meno latino. Ma le ore scientifiche sono comunque meno rispetto alla sperimentazione del Piano nazionale informatica. Però questo colpisce meno: le famiglie non riescono a buttare giù di dover rinunciare alla lingua straniera che per tre anni i figli hanno studiato alle medie. E’ andata così anche all’open day del Copernico, l’altro liceo scientifico cittadino. Qui i genitori – già una trentina, grosso modo per una ipotetica classe – hanno chiesto al preside di fare qualcosa. Il “qualcosa” che le scuole possono fare è far perdere il posto a un altro paio di insegnanti tagliando le loro ore di lezione a favore delle lingue. Su questo nessun consiglio di istituto riesce a trovare l’accordo. Oppure possono chiedere un contributo alle famiglie, che nella Pavia bene si dicono disposte a pagare piuttosto che perdere qualità nella formazione dei loro bambini. Non tutti potranno però. In mezzo alle famiglie ricche c’è chi magari farà fatica a tirar fuori i soldi per i corsi pomeridiani, ma questo la Scuola di oggi (quella prevista dal governo, non le singole realtà cittadine) sembra non prevederlo. Anzi. Si dice “gli istituti potranno usare il fondo che hanno a disposizione”. Facendo finta di non vedere quell’enorme assegno da 8 milioni di euro che le scuole della provincia di Pavia dovrebbero ricevere dal ministero: sono tutte spese che hanno già anticipato, lo stato dovrebbe restituire i soldi, ma per il momento ha congelato i suoi debiti.

Eppure non vedo le famiglie in rivolta. Non dico i ragazzi che a 14 anni forse non sono ancora del tutto consapevoli. Però la protesta dovrebbe partire dai genitori, che vengono sempre più chiamati a spendere per l’istruzione dei loro figli che dovrebbe essere pagata dallo stato. Ma che devono spendere anche per le piccole cose. Soprattutto nelle elementari le mamme accompagnano i bambini a scuola tenendo lo zaino in una mano e una busta con la carta igienica e il sapone nell’altra. Per dare ai loro figli una biblioteca, i genitori e le maestre della scuola elementare Canna di Pavia hanno prima raccolto un po’ di soldini, poi hanno comprato libri e scaffali, dipinto l’aula, montato i mobili, pulito, sistemato e inaugurato. In un’atmosfera di divertimento con i bambini a correre da una parte all’altra per dare una mano, mentre imparavano la differenza tra un saggio e un romanzo. Bello. Semplicemente senza le famiglie non si sarebbe potuto fare. Che da un lato va bene, partecipare alla vita scolastica è sempre cosa rara e da incentivare, ma le scuole devono potercela fare da sole nell’ipotesi – non poi così lontana – di avere davanti famiglie che non possono permettersi donazioni per i libri della biblioteca.

Ho visto muoversi sulla sedia i genitori, li ho visti commentare uno con l’altro, alzare il tono del brusio, solo quando – tornando all’open day del Taramelli – la vice preside ha spiegato che la scuola, soprattutto nel biennio, ha un obiettivo fondamentale: assicurarsi che i ragazzi sappiano leggere, scrivere e ascoltare. Sì, perché come ha detto ai genitori “i ragazzi spesso arrivano in prima con difficoltà nella lettura, non capiscono il testo se gli si chiede di ripetere, non riescono a stare attenti più di 15 minuti, non sanno prendere appunti, non sanno ascoltare la lezione, hanno difficoltà di scrittura”. Tutti a pensare “va be’, non è il caso di mio figlio”. Ma intanto un liceo scientifico ha deciso da un po’ di anni che mentre insegna latino e matematica, mentre accompagna gli studenti nella storia e nella filosofia, deve riprendere quello che altri non hanno fatto. Deve insegnare agli adolescenti ad alzare la mano e a dire “scusi non ho capito”.

Ecco, alzo la mano. anch’io. Non ho capito perché i genitori si stupiscono se i ragazzi a 14 anni non sanno leggere e scrivere (e poi arrivano ai test dell’università e fanno disastri) ma non dicono niente se ogni anno si tolgono ore di lezione all’italiano, non dicono niente se sapranno solo l’inglese (e con meno ore anche qui) e l’unica cosa che chiedono è “posso indicare la sezione o posso scrivere il nome dell’amichetto con cui mio figlio vorrebbe restare”?

Quello che sento, dentro

Potrei parlare, discutere, stringere i denti… sorridere…
mentire infinitamente, dire e ridire inutilità
mostrare falsa, ipocrita serenità, quando le parole si ribellano
favole fiumi, mari, di perplessità
non c’è una ragione per non provare quello che sento… dentro…
un cielo immenso… dentro…
quello che sento

Ho bisogno di stare con te
regalarti le ali di ogni mio pensiero
oltre le vie chiuse in me
voglio aprire il mio cuore a ciò che è vero

(Quello che sento – Due parole, 1996)

Da tanto non sentivo questa canzone. Così il concerto di ieri sera (Carmen Consoli allo Smeraldo di Milano) mi ha fatto uscire più piena. Voce bellissima, note siciliane che ogni tanto prendono il sopravvento e colorano gli accenti, le sillabe. Musica dura, talvolta delicata. Strano sentire Carmen Consoli seduti a teatro. L’avevo vista a Genova, il palco appoggiato sul mare, le gambe libere per saltare. A teatro sei trattenuto, ma l’atmosfera è più calda, confidenziale, dialogante. Ritrovi nei testi suonati dal vivo pezzi di vita, pezzi di storie, pensieri vissuti ma resi alla perfezione da parole di altri. Nell’aria gelida della sera, nella stessa aria gelida di questa mattina, che però concede un cielo incredibilmente azzurro, mi chiedo se davvero quest’anno “primavera tarderà”.

Diego scriveva. Poi un giorno ha deciso che non serviva più

Diego andava bene a scuola. Senza fatica, senza dover studiare troppo. Faceva i calcoli senza bisogno di usare la calcolatrice, ma sapeva anche tradurre il latino e il greco con facilità. Tanto che la pagella parlava chiaro: tutti dieci, qualche nove. Scriveva Diego. Scriveva tanto. Ma prima di togliersi la vita no. Non ha lasciato parole per spiegare perché aveva deciso di soffocare il suo dolore con una corda  attorno al collo. Forse non era necessario.

Mira, la mamma di Diego, racconta la storia di suo figlio. Lo fa con rabbia, con determinazione, con il desiderio di trovare risposte.

Diego frequentava il liceo classico a Ischia. Un quartiere “bene”, un posto dove tutti si conoscono. “Ai professori davo del tu – racconta Mira – avevamo studiato insieme all’università, loro mi dicevano che mio figlio era il fiore all’occhiello della scuola”. Sottolinea il rapporto con gli insegnanti di Diego perché questo apparente legame di amicizia non è servito a salvargli la vita. “C’era stato qualche episodio di bullismo – racconta Mira, i capelli legati, la sciarpa a quadri viola – lo avevo detto agli insegnanti, mi hanno risposto ‘è lo scotto che deve pagare il primo della classe’, non è stato fatto niente, nessuno ha pensato di fare qualcosa”. Nell’ottobre di due anni fa la situazione è diventata più difficile. Diego si candida per le elezioni del rappresentante di classe. Fa un bel discorso per incoraggiare i compagni a stare uniti contro i bulli. Non era timido, aveva coraggio. I bulli in classe sono tre: una ragazza e due ragazzi. “Tutti ricchi, molto. Avevano tutto”, dice Mira. In classe si vota. Nessun scrive il nome di Diego, che a 14 anni, quasi 15, sognava di poter cambiare quel suo piccolo mondo già così pesante. Qualcuno però su quei fogli scrive “Devi morire”, “Sei un ragazzo morto”. Diego è tornato a casa, non ha detto molto, ha pranzato. Nel pomeriggio si è tolto la vita.

“La scuola non è venuta al funerale, non hanno nemmeno scritto un biglietto, anzi hanno preso le distanze da quanto avvenuto. Ma come si fa? In quella scuola ci sono stati altri quattro suicidi prima di quello di mio figlio, e un altro ragazzo si è ucciso dopo sei mesi. Suo padre era il prof di educazione fisica di mio figlio. Se almeno lui mi è stato vicino? No, nemmeno lui”. Mira è arrabbiata. Non ha solo perso un figlio. Sa che deve raccontare quello che è successo per far capire nelle scuole che il bullismo è sotto gli occhi di ogni insegnante. Il liceo – racconta – non le ha concesso una borsa di studio intitolata a suo figlio. La borsa di studio ora la organizzeranno a Pavia. L’università farà lavorare i suoi studenti a una tesi di laurea sul fenomeno del bullismo, sulle problematiche del mondo scuola. Mira ha ringraziato davanti a psicologi e insegnanti riunioni per un convegno proprio sul bullismo, ma ha dovuto fare quasi 800 chilometri prima di veder esaudito un desiderio.  Ecco, è amareggiata Mira. Il giorno del funerale i compagni di Diego sono andati in discoteca. Lo dice come esempio di indifferenza. “Ma io non ho denunciato i ragazzi – ripete con forza – ho denunciato gli adulti, dov’erano gli adulti”?


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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