Piazza Alimonda. La nonna Franca abitava proprio in questa piazzetta, una finestrella sulla facciata della chiesa, smontata a fine 800 da via XX Settembre e rimontata in questo snodo della città, vicino alla stazione Brignole, al centro, ma anche all’ospedale e ai piedi della collina di Albaro. In piazza Alimonda è morto Carlo Giuliani. Un ragazzo. Lo ricorda così la targa nell’aiuola davanti alla chiesa, che qualcuno pochi giorni fa, come si vede nella foto, ha preso a martellate e imbrattato di nero. Oggi a Genova, a undici anni dal G8, un corteo ha ricordato Giuliani e le violenze di quei giorni. Ho visto Diaz, il film di Daniele Vicari, solo adesso. Salto da un argomento all’altro: mia nonna, Giuliani, il corteo, il cippo, il film. Ma ho un filo in testa che tiene unito tutto.
Il giorno prima dell’inizio del G8 eravamo andati a trovare la nonna. Dal centro storico sigillato con cancellate nei vicoli siamo usciti dalla zona rossa mostrando i documenti di residenti, abbiamo superato quella gialla. E ci siamo ritrovati nel deserto di via Teodolinda e piazza Alimonda. Ricordo che io e mio papà abbiamo pensato: se in questa parta della città non ci sono controlli sarà qui che ci saranno scontri. Un pensiero da genovesi che conoscono la città. Mia nonna, dalla sua finestra, sentiva urla e scontri. Un giorno mi ha detto “questa finestra è il mio cinema”. Poi è arrivato il cinema davvero. Il film di Vicari è un colpo allo stomaco. Una signora accanto a me se ne è andata dopo un’ora, dopo che i denti erano stati spaccati, e i calci, e il sangue, e quei corpi che sembravano morti. Nel film c’è piazza Merani. L’insegna del Dì per dì, le finestre del primo piano sono quelle dove abitavano i nonni, dove è cresciuto mio papà. La Diaz è stata la sua scuola, quando era un istituto magistrale. Mi chiedo come sarà stato per gli studenti tornare in classe, con le pareti piene del sangue di altri ragazzi. Si unisce tutto: i ricordi della nonna, la finestra da cui si può veder morire un ragazzo, le immagini di un film che però è anche la tua città. Ricordo un vecchietto che a una cancellata che sbarrava Porta Soprana ha chiesto al finanziere che la sorvegliava: “Scusi, sono uscito di casa stamattina e i cancelli erano aperti. Ora che li avete chiusi non so più come rientrare a casa”. Inutile dare indicazioni, nomi di strade, piazze. Chi indossava la divisa di Genova non sapeva nulla.
Archive for the 'Oggi' Category
Genova, da una finestra in piazza Alimonda si può veder morire un ragazzo
Published luglio 20, 2012 Luoghi , Oggi 4 CommentsTag:Carlo Giuliani, Daniele vicari, Diaz, g8, genova, piazza Alimonda
Ore 19.26. “Mi puoi chiamare”. Un messaggio di mia mamma. Senza punto interrogativo, fa sempre così. Perché non mi chiama direttamente? Me lo chiedo tutte le volte. So che ha paura di disturbare quando sono al lavoro. Per istinto non la chiamo dal telefono fisso. Mi alzo dal mio posto e vado sulle scale. Deve dirmi qualcosa. Penso “magari ha litigato con qualcuno”. “E’ morta la nonna Franca”. Questo no, non me lo aspettavo. Perché domani è il suo compleanno. E oggi è quello di mio papà. Madre e figlio hanno sempre festeggiato una dopo l’altro. Che poi non c’entra con la morte il compleanno, però non lo prendi in considerazione.
Si è addormentata e non si è più svegliata. So che deve averci pensato tanto a questo momento. Quando chiudi gli occhi e ti domandi se hai lasciato tutto in ordine, la vita. Ci aveva già salutati tutti l’ultima volta che ci siamo visti. Un regalo ciascuno. Non un regalo comprato. Una cosa sua. Ricordi soprattutto. Il baule della nonna in quella casa troppo piccola rispetto all’appartamento dai mobili di legno con le teste di leone dove viveva quando il nonno era ancora vivo.
Se penso alla nonna Franca penso alla nostalgia che aveva negli occhi. Le mancava il nonno Mario.
Penso a quando aveva detto che io non mi sarei costruita una famiglia perché pensavo più al lavoro. Era contenta di me, di quello che faccio. Diceva sempre che ero al centro del mondo, dove succedono le cose. E io pensavo a Pavia e sorridevo. Non è il centro del mondo, ma lei intendeva che potevo sapere le cose in tempo reale. E sapere qualche dettaglio in più prima che gli altri lo leggessero sul giornale. Era orgogliosa.
Le foto dei nipoti appese in cucina, le bustine con i soldi sotto il piatto, il tono della voce che si alzava spesso ultimamente. Non era facile. Aveva le sue idee. E le faceva notare.
Aveva lavorato per la Lanerossi a Schio. Le piaceva cucire. Le borse imbottite.
Aveva gli zigomi accentuati.
Punzecchiava tutti. Mio papà la chiamava “tappo”. Non so ancora bene perché.
Buonanotte nonna.
Nel disegno di Luca, 4 anni, c’è il sole
Published novembre 15, 2011 Oggi Leave a CommentTag:nebbia, pavia, sole
Martedì, sono quasi le 13. Fa freddo, c’è nebbia. Io non ho voglia di mangiare un panino al volo. Così propongo al mio compagno di banco/collega di scrivania un risottino. Andiamo alle Carceri, un ristorante carino nel centro storico di Pavia, buon vino, buona cucina, prezzi contenuti, atmosfera rilassata. Prendiamo risotto con pasta di salame e bonarda. E un dolce buonissimo: mousse di castagne con crema di cachi. Mentre mangiamo arriva una famiglia, mamma, papà e un bimbo biondino con un bel faccino e la felpa a righe. Lo guardiamo, scambiamo qualche parola con i genitori, mangia una bella bistecca con le patate. Tutta. Lo vediamo con la testa piegata su un foglio di carta, sta colorando. Ha 4 anni, è educato, sta al suo posto, seduto in ginocchio sulla sedia di legno. Ci mettiamo la giacca e mentre salutiamo e stiamo per andare via, il bimbo si alza dalla sedia e mi porge un foglio. Mi ha regalato un disegno, con il suo nome, Luca, scritto in rosso. Nel suo disegno c’è solo una nuvola, il cielo è azzurro e c’è il sole.
Cosa possiamo fare per loro? Un aiuto da Twitter
Published novembre 6, 2011 Oggi Leave a CommentTag:alluvione, genova, maltempo, secolo XIX, twitter
Cosa possiamo fare per loro? Una domanda che mi ha tolto il fiato.
In questi giorni in cui Genova è distrutta dalla pioggia ancora una volta Twitter ha dimostrato quanto può essere utile per dare informazioni. Il Secolo XIX ha aggiornato, segnalato e a sua volta raccolto segnalazioni dalla gente, da chi magari non poteva telefonare perché i cellulari hanno problemi e i telefoni fissi sono alle prese con continue interferenze. Internet dunque come unico mezzo di comunicazione. Ieri mattina ho mandato anche io un tweet: mia zia in piazzale Adriatico era ancora bloccata in casa, gli appartamenti e le scale del primo piano invasi dal fango, impossibile quindi uscire. Con lei c’era una vicina con un bimbo piccolo, scappata dalla sua casa ormai da buttare, ma senza pannaloni per il piccolo. Tutti senza elettricità. Ho scritto al SecoloXIX perché io faccio lo stesso lavoro. Curo i social network del quotidiano La Provincia Pavese e mi è venuto naturale mandare una segnalazione. Ho pensato che li avrebbe aiutati a raccogliere voci dalla città, e forse segretamente ho pensato che potessere servire a quelle persone in trappola. Mi hanno risposto subito che avrebbero girato la segnalazione alla regia dei soccorsi. Dopo qualche ora mi hanno ricontattata per sapere se la situazione era risolta, e no, ancora no, la ragazza era riuscita a farsi portare via con il bambino, ma nel palazzo c’erano oltre a mia zia molti anziani tutti senza luce. Il tweet del SecoloXIX “cosa possiamo fare per loro?” mi ha commossa. Perché ho subito chiamato mia zia e le ho chiesto di cosa avevano bisogno, se avevano da mangiare, acqua. Ancora per un giorno sì ed è quello che ho risposto al quotidiano. Mi ha commossa perché ho capito che avrebbero fatto in modo di intervenire. Avrebbero davvero fatto qualcosa. E non posso che ringraziarli.
Potenza di Twitter, ma anche e soprattutto delle persone che ci stanno dietro.
Genova, la paura di non essere là
Published novembre 4, 2011 Luoghi , Oggi Leave a CommentTag:allagamenti, alluvione, brignole, genova
Sono morte sette persone a Genova. Travolte dall’acqua, quell’acqua che soffoca, che copre, sommerge, ribalta, distrugge. Una mamma ancora abbracciata alla sua bambina. Se sei lontano da casa puoi solo guardare le immagini che scorrono sul computer. Puoi solo leggere l’aggiornarsi di un racconto in diretta che ti tiene sospeso. C’è l’acqua che scorre come un torrente e invade le scale del sottopasso di Brignole. C’è Brignole, la stazione allagata, quel mare marrone che raggiunge la via dello struscio, che risale via XX e la gente si ferma a un passo dal toccare il fango. Ho cercato mio fratello, era in biblioteca lontano dal caos. Ho cercato mia mamma. Mi ha risposto subito. Una mattinata difficile, bloccata un’ora nell’atrio di un palazzo, poi nel pomeriggio è rimasta a casa. La zia Romy dal Bisagno a Oregina ha camminato per tornare a casa, via dall’ufficio che iniziava ad allagarsi. Impossibile usare gli autobus, una lenta scalata attraversando tutta la città sotto la pioggia. La zia Luciana con nonna Antonietta è rimasta bloccata a casa, quarto piano, perché il primo piano della palazzina è allagato. Ospitano una ragazza giovane con un bimbo. Si arrangeranno sul pavimento. Storie piccole rispetto ai morti, lo so. La nonna Franca abita in piazza Alimonda, proprio la piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Finestrelle che bucano la facciata della chiesa. Non rispondeva al telefono. E a pochi metri da casa sua l’acqua continuava a salire. Fa paura. Poi mi chiama mia mamma. La nonna è andata da una vicina, una famiglia che ha lasciato il Marocco, una mamma con i suoi bimbi. Si tengono compagnia perché non possono uscire, è andata via la luce. Mio papà è in viaggio da Roma, ha preferito tentare comunque il rientro. Il suo treno è partito in ritardo, mezz’oretta fa era a Massa. Aspetto un messaggio per sapere che è arrivato a casa.
Vedere le immagini della mia Genova sommersa fa male, uno stato di ansia che ti fa sentire i battiti del cuore forti sul collo. Non puoi fare niente. E fa rabbia. Perché riconosci gli angoli e le strade, i muri, le piazze, ti ricordi che il letto del Bisagno era pieno di alberi e tronchi e che tutte le volte che sei andata a Marassi allo stadio e ci sei passata hai pensato che quel torrente è secco e pericoloso. Fa rabbia perché senti di ragazzini fatti uscire da scuola e abbandonati alla strada. Vedi una bimba con l’acqua fino alla pancia che dice che ha paura. Senti la storia di una ragazzina, Martina, persa di vista dagli amici. Pensavano fosse morta. L’hanno ritrovata. Premi il tasto F5 della tastiera per aggiornare la pagina del Secoloxix e di Repubblica e il numero dei morti cresce. Il problema è che non sei lì. Non sono lì, e se dovesse succedere qualcosa so che non me lo perdonerei.
Precari eliminati, ultimo giorno a pulire gli avanzi della Notte bianca
Published settembre 14, 2011 Oggi Leave a CommentTag:amiu, genova, manovra, notte bianca, precari, protesta, secolo XIX, tagli
Nel caos della Notte bianca di Genova, tra la folla, tra le 400mila persone in movimento, nei vicoli soprattutto, nel centro storico, le pettorine gialle spiccavano nel buio. Gli spazzini dell’Amiu hanno lavorato tutta la notte, hanno iniziato a raccogliere cartacce e avanzi di cibo presto, prestissimo. Mi dicono che le loro ore di lavoro per la Notte bianca genovese sono state pagate dagli sponsor. Ma il loro contratto resta appeso a un filo, e per molti è già carta straccia. Una protesta silenziona: un cartello attaccato alla schiena con la scritta “Precario eliminato”. Perché per effetto dei tagli il loro posto di lavoro è perso. Quanti dei 400mila hanno visto quei fogli bianchi sulle schiene di ragazze e ragazzi tutti giovanissimi?
Copio e incollo dal Secolo XIX
“Record di lavoro con i precari Amiu e super raccolta di vetro con un tonnellaggio superiore a quello del 2010 mentre in leggero calo quello della plastica. Lavoro svolto da 300 operatori Amiu, un terzo dei quali era all’ultimo o penultimo giorno dilavoro quale precario, condizione in cui si trova mediamente da due o tre anni con punte anche di cinque o sei. Ora licenziati a causa della finanziaria che assoggetta, pur essendo Amiu in condizioni di gestione economica di equilibrio e una società di igiene pubblica, non un ente locale o simile, al blocco di assunzioni a termine o alle stabilizzazione”.
Meno 8 ore al click day
Published gennaio 30, 2011 Oggi Leave a CommentTag:click day, genova, lavoro nero, ministero dell'interno, pavia, stranieri
Tra 8 ore scatta il primo click day. Dalle 8 in punto di domani mattina, lunedì 31 gennaio, i cittadini stranieri potranno presentare la domanda per regolarizzare il proprio lavoro. Solo on line, solo davanti a un computer, solo domani, solo dalle 8. L’orario è fondamentale. Questa è una gara a chi “clicca” per primo. E’ una gara per aggiudicarsi qualcosa come 98mila posti di lavoro. Perché si terrà conto – nel valutare le richieste – dell’ora di invio. Dicono che a lavorare in nero però ci siamo almeno 500mila persone. Che forse domani mattina punteranno la sveglia, accenderanno il computer, apriranno il sito del Ministero dell’Interno e guarderanno con ansia all’orologio appeso alla parete. Pronti al click. Potrebbe essere una scena perfetta. Ma mi guardo attorno e non capisco. Penso ai miei vicini di casa genovesi, che schiacciati vivono in sei o sette in pochi metri quadri. Non hanno un computer. Penso al ragazzo senegalese che ogni tanto incontro per le scale. Vede suoi figlio uno volta all’anno, con il lavoro si arrangia. E non ha un computer. Penso agli operai, a chi si sveglia all’alba e cerca lavoro. Non hanno un computer. Sì, ci sono i patronati, i sindacati che si mettono a disposizione. Ma continuo a pensare che il click day sia solo un modo per dire che siamo abbastanza tecnologici, che evitiamo alle persone lunghe code davanti agli uffici, che risparmiamo carta, tempo. Senza pensare che a quei numerini scritti in basso a destra sullo schermo del computer corrisponde il futuro di molte persone. E penso alle donne, spesso in Italia per pochi mesi all’anno. Aggrappate ai secondi di un giorno dal nome americanizzato. In provincia di Pavia per almeno mille stranieri ci sarà la possibilità di svegliarsi al mattino senza la preoccupazione di un lavoro che non ha garanzie, di sicurezza, di soldi, del domani. Ma tutto dipende da un click.
Genoani occasionali, quel brutto striscione contro
Published novembre 1, 2010 Ho visto , Oggi 3 CommentsTag:29/10/2010, genoa, genoa-inter, marassi, stadio, striscioni, tifosi
“Genoano occasionale vieni solo con l’Internazionale”. Lo striscione compare qualche minuto prima di Genoa-Inter. Non sono d’accordo. Io che già mi innervosisco per il tifo-contro, non sono d’accordo. A Marassi c’erano quasi 30mila persone, di cui 20mila abbonati. Come funziona? Solo chi vede allo stadio tutte le partite è considerato un tifoso vero? Non sono d’accordo. C’è chi la domenica (o il sabato o il venerdì o pensa un po’ anche il lunedì) lavora. C’è chi semplicemente non può permettersi di pagare il biglietto e quindi seleziona con attenzione le partite sul calendario. Così, per informazione: la tribuna superiore costa 60 euro (escludendo a priori quella centrale da 100 a 150 euro), i distinti (lato lungo di fronte alla tribuna) costano 40 euro, gradinata 25 euro (se c’è posto) e 25 anche il settore ospiti, a Genova è la “gabbia” per le reti che circondano gli angoli riservati ai tifosi avversari. Non sono d’accordo dunque con quello striscione. O forse semplicemente non posso capire. Perché dovrebbe essere così sbagliato voler vedere in campo un Eto’o o magari Milito che fino a due anni fa era rossoblu? Perché dovrebbe essere sbagliato voler vedere una potenziale bella partita di calcio? Il tifoso che fa distinzioni, che fa lo schizzinoso con le facce nuove sugli spalti proprio non lo riesco a capire.
Marassi, le chiavi sono un’arma i coltelli no
Published ottobre 16, 2010 Oggi Leave a CommentTag:genova, italia-serbia, marassi, nazionale
Quando entro allo stadio mi controllano il biglietto due volte, prima di arrivare ai tornelli. Lì si passa il codice a barre del biglietto e si può entrare. In tribuna appena varcato il cancello ti chiedono ancora una volta la carta d’identità, poi ti fanno aprire la borsa. Vado a Marassi con mio fratello. A entrambi chiedono di aprire lo zaino, la custodia della macchina fotografica. Se vedono le chiavi uscire dalle tasche dei jeans chiedono spiegazioni. “Sono le chiavi di casa”, mio fratello risponde tranquillo. Io un po’ mi arrabbio perché non sempre i controlli sono fatti con educazione. Quando entri in gradinata è peggio. Spesso c’è la Finanza a chiederti di aprire lo zaino, con le ragazzi sono più gentili, con i ragazzi no. Tutti teppisti, sembra essere questo il loro pensiero.
Ho letto e sentito troppa gente esibirsi in variegate frasi, tutte riassumibili in “serbi di merda”. Fastidioso. Pericoloso. Mentre vedevo i fumogeni in campo, le cesoie usate per tagliare la rete della gabbia, ho pensato solo a quando vado allo stadio con mio fratello. Con la mia sciarpa del Genoa, il sorriso stampato in faccia, l’agitazione del prepartita. E quei continui controlli di chi ti vede comunque come uno capace di prendere a botte il suo vicino. Così mi chiedo perché un mazzo di chiavi viene considerato un’arma e un coltellino no.
Dove il cielo è più blu
Published settembre 5, 2010 Ho visto , Oggi Leave a CommentTag:fernando pessoa, il libro dell'inquietudine, mongolfiere, pavia
Elisa e Mirko aprono e chiudono l’enorme pallone della mongolfiera a chi vuole gustarne il sapore antico. Sono di Ravenna e per loro è un hobby: appena possono attaccano il rimorchio all’auto e girano per i raduni, “pochi in Italia”, mi dice Mirko. Il perché sta nella fatica di montare, smontare, atterrare nel posto giusto, aspettare il furgone che cerca di recuperarti, piegare tutto con cura. Per questo molti lo fanno per lavoro.
In piedi su una cesta guardo in alto e vedo le fiamme sotto un pallone arcobaleno. E in basso piano piano Pavia si allontana. Il Ponte Coperto si fa più piccolo, il duomo si perde tra i tetti e il Ticino diventa solo un piccolo serpente d’acqua. Poi è una distesa di verde, le risaie, gli alberi, le cascine. Mirko fa abbassare la mongolfiera: sfioriamo campi di granoturco, si sente il profumo dei boschi, l’aria umida del fiume. Il cielo limpido. Si vede lontano. Sembra di poter andare lontano. Sembra di poter riuscire a non pensare a niente.
Poco prima di volare sulla mongolfiera avevo letto queste parole:
“Il mio desiderio è fuggire. Fuggireda ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione”.
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)
“Come faremmo senza Google”? Lo dice Anna, mia collega, ad alta voce, dall’altra parte dell’open space. Così decidiamo di provarci. Una giornata – quella di oggi – senza usare Google e comunque senza un motore di ricerca.
Io – ore 13
Stamattina ho acceso il computer verso le 9.30. Ho controllato la posta, personale e del lavoro, una sbirciatina su Facebook, il sito di Repubblica. Poi colazione, mi sono vestita al volo e sono uscita. In giro per servizio, sono rientrata in redazione poco dopo mezzogiorno. Stavo per cedere alla tentazione alle 13 in punto per un dubbio lessicale. Che mi sono fatta passare. E il secondo dubbio l’ho risolto con un collega.
Anna – ore 15
Ora resta solo da trovare la foto. Ma se sull’archivio Ansa digiti “Calabrone” spunta solo Ken Follett che suona la chitarra: misteri dell’informatica.
Anna – ore 22
Missione compiuta. God bless l’archivio del giornale, la mia agenda ei colleghi. Devo ammettere che è stato divertente (salvo quando hodovuto zampettare fino al dizionario nell’armadio e ho avuto unlast-minute-doubt sul percorso di una strada statale del pavese). Eper stasera ho scelto la disintossicazione totale: cucinasperimentale, radio e pagine scritte. Senza tentazioni a led. Sempre che entro mezzanotte non mi venga un altro dubbio amletico: suppongo che i miei coinquilini felini non riescano a rispondermi. O meglio, io non capisco sempre… Ci vorrebbe il traduttore di Google!
Ho appena finito di leggere Il vangelo secondo Gesù Cristo. Pochi minuti fa sono arrivata all’ultima pagina, emozionata da quel racconto, dalla possibilità che offre di vedere le cose sotto un altro punto di vista. Ecco, emozionata dal punto di vista. Dalle parole che aprono nuove strade, quando non ti domandi nemmeno se stai leggendo un romanzo, una cronaca precisa e dettagliata, o i pensieri di chi scrive. Alzo la testa dai cuscini, fuori è tornato il sole, mi siedo alla scrivania. Davanti il computer, digito il sito di Repubblica: “Addio a José Saramago”. Odio la retorica, ma ho lacrime calde che mi rigano il viso. Emozione anche questa, ma nella rabbiosa consapevolezza di vedermi negato il suo punto di vista. Ho letto la sua ultima pagina. E Saramago ha scritto le sue ultime parole stamattina, nel blog che era diventato uno sfogo, un racconto quotidiano e poi il libro Il quaderno. La copertina verde e viola nell’edizione portoghese che ho comprato a Porto lo scorso settembre, nella libreria di Lello y Irmao, in rua Carmelitas, che io e Betty abbiamo cercato sulla mappa e poi trovato quasi per caso nel nostro viaggio portoghese. L’ultimo punto di vista.
“Penso che la società di oggi abbia bisogno di filosofia. Filosofia come spazio, luogo, metodo di riflessione, che può anche non avere un obiettivo concreto, come la scienza, che avanza per raggiungere nuovi obiettivi. Ci manca riflessione, abbiamo bisogno del lavoro di pensare, e mi sembra che, senza idee, non andiamo da nessuna parte”.