Martedì, sono quasi le 13. Fa freddo, c’è nebbia. Io non ho voglia di mangiare un panino al volo. Così propongo al mio compagno di banco/collega di scrivania un risottino. Andiamo alle Carceri, un ristorante carino nel centro storico di Pavia, buon vino, buona cucina, prezzi contenuti, atmosfera rilassata. Prendiamo risotto con pasta di salame e bonarda. E un dolce buonissimo: mousse di castagne con crema di cachi. Mentre mangiamo arriva una famiglia, mamma, papà e un bimbo biondino con un bel faccino e la felpa a righe. Lo guardiamo, scambiamo qualche parola con i genitori, mangia una bella bistecca con le patate. Tutta. Lo vediamo con la testa piegata su un foglio di carta, sta colorando. Ha 4 anni, è educato, sta al suo posto, seduto in ginocchio sulla sedia di legno. Ci mettiamo la giacca e mentre salutiamo e stiamo per andare via, il bimbo si alza dalla sedia e mi porge un foglio. Mi ha regalato un disegno, con il suo nome, Luca, scritto in rosso. Nel suo disegno c’è solo una nuvola, il cielo è azzurro e c’è il sole.
Archivio per novembre 2011
Nel disegno di Luca, 4 anni, c’è il sole
Published novembre 15, 2011 Oggi Leave a CommentTag:nebbia, pavia, sole
Cosa possiamo fare per loro? Un aiuto da Twitter
Published novembre 6, 2011 Oggi Leave a CommentTag:alluvione, genova, maltempo, secolo XIX, twitter
Cosa possiamo fare per loro? Una domanda che mi ha tolto il fiato.
In questi giorni in cui Genova è distrutta dalla pioggia ancora una volta Twitter ha dimostrato quanto può essere utile per dare informazioni. Il Secolo XIX ha aggiornato, segnalato e a sua volta raccolto segnalazioni dalla gente, da chi magari non poteva telefonare perché i cellulari hanno problemi e i telefoni fissi sono alle prese con continue interferenze. Internet dunque come unico mezzo di comunicazione. Ieri mattina ho mandato anche io un tweet: mia zia in piazzale Adriatico era ancora bloccata in casa, gli appartamenti e le scale del primo piano invasi dal fango, impossibile quindi uscire. Con lei c’era una vicina con un bimbo piccolo, scappata dalla sua casa ormai da buttare, ma senza pannaloni per il piccolo. Tutti senza elettricità. Ho scritto al SecoloXIX perché io faccio lo stesso lavoro. Curo i social network del quotidiano La Provincia Pavese e mi è venuto naturale mandare una segnalazione. Ho pensato che li avrebbe aiutati a raccogliere voci dalla città, e forse segretamente ho pensato che potessere servire a quelle persone in trappola. Mi hanno risposto subito che avrebbero girato la segnalazione alla regia dei soccorsi. Dopo qualche ora mi hanno ricontattata per sapere se la situazione era risolta, e no, ancora no, la ragazza era riuscita a farsi portare via con il bambino, ma nel palazzo c’erano oltre a mia zia molti anziani tutti senza luce. Il tweet del SecoloXIX “cosa possiamo fare per loro?” mi ha commossa. Perché ho subito chiamato mia zia e le ho chiesto di cosa avevano bisogno, se avevano da mangiare, acqua. Ancora per un giorno sì ed è quello che ho risposto al quotidiano. Mi ha commossa perché ho capito che avrebbero fatto in modo di intervenire. Avrebbero davvero fatto qualcosa. E non posso che ringraziarli.
Potenza di Twitter, ma anche e soprattutto delle persone che ci stanno dietro.
Genova, la paura di non essere là
Published novembre 4, 2011 Luoghi , Oggi Leave a CommentTag:allagamenti, alluvione, brignole, genova
Sono morte sette persone a Genova. Travolte dall’acqua, quell’acqua che soffoca, che copre, sommerge, ribalta, distrugge. Una mamma ancora abbracciata alla sua bambina. Se sei lontano da casa puoi solo guardare le immagini che scorrono sul computer. Puoi solo leggere l’aggiornarsi di un racconto in diretta che ti tiene sospeso. C’è l’acqua che scorre come un torrente e invade le scale del sottopasso di Brignole. C’è Brignole, la stazione allagata, quel mare marrone che raggiunge la via dello struscio, che risale via XX e la gente si ferma a un passo dal toccare il fango. Ho cercato mio fratello, era in biblioteca lontano dal caos. Ho cercato mia mamma. Mi ha risposto subito. Una mattinata difficile, bloccata un’ora nell’atrio di un palazzo, poi nel pomeriggio è rimasta a casa. La zia Romy dal Bisagno a Oregina ha camminato per tornare a casa, via dall’ufficio che iniziava ad allagarsi. Impossibile usare gli autobus, una lenta scalata attraversando tutta la città sotto la pioggia. La zia Luciana con nonna Antonietta è rimasta bloccata a casa, quarto piano, perché il primo piano della palazzina è allagato. Ospitano una ragazza giovane con un bimbo. Si arrangeranno sul pavimento. Storie piccole rispetto ai morti, lo so. La nonna Franca abita in piazza Alimonda, proprio la piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Finestrelle che bucano la facciata della chiesa. Non rispondeva al telefono. E a pochi metri da casa sua l’acqua continuava a salire. Fa paura. Poi mi chiama mia mamma. La nonna è andata da una vicina, una famiglia che ha lasciato il Marocco, una mamma con i suoi bimbi. Si tengono compagnia perché non possono uscire, è andata via la luce. Mio papà è in viaggio da Roma, ha preferito tentare comunque il rientro. Il suo treno è partito in ritardo, mezz’oretta fa era a Massa. Aspetto un messaggio per sapere che è arrivato a casa.
Vedere le immagini della mia Genova sommersa fa male, uno stato di ansia che ti fa sentire i battiti del cuore forti sul collo. Non puoi fare niente. E fa rabbia. Perché riconosci gli angoli e le strade, i muri, le piazze, ti ricordi che il letto del Bisagno era pieno di alberi e tronchi e che tutte le volte che sei andata a Marassi allo stadio e ci sei passata hai pensato che quel torrente è secco e pericoloso. Fa rabbia perché senti di ragazzini fatti uscire da scuola e abbandonati alla strada. Vedi una bimba con l’acqua fino alla pancia che dice che ha paura. Senti la storia di una ragazzina, Martina, persa di vista dagli amici. Pensavano fosse morta. L’hanno ritrovata. Premi il tasto F5 della tastiera per aggiornare la pagina del Secoloxix e di Repubblica e il numero dei morti cresce. Il problema è che non sei lì. Non sono lì, e se dovesse succedere qualcosa so che non me lo perdonerei.
Il silenzio della ghiaia
Published novembre 3, 2011 Ho visto 3 CommentsTag:cimitero monumentale, commemorazione dei defunti, gimigliano, pavia
Andare al cimitero durante la commemorazione dei defunti significa vedere persone che si incontrano nei vialetti di ghiaia, si abbracciano, condividono. Ci sono famiglie con i bambini, ometti in miniatura che seri seri seguono mamma e papà. Sono andata nei tre cimiteri di Pavia come ospite. Per lavoro ho cercato di raccontare il dolore di chi porta un fiore sulla tomba di chi non c’è più. E il dolore di chi subisce un furto, di chi vede sparire la pianta appena lasciata sulla lapide. Vigili e carabinieri agli ingressi, perché nemmeno al cimitero si può essere sicuri. E il dolore di chi arriva da un altro paese, e passa tutta la giornata a pulire le tombe altrui, per mettere via qualche soldino: una coppia senza lavoro che in Romania ha un bimbo di 9 anni che aspetta per il compleanno un cellulare. Difficile da accontentare. Ci sono persone in piedi, le mani dietro la schiena, che in silenzio pregano. Ci sono persone che puliscono, spazzano, strappano l’erba secca. Ho visto questa signora seduta su una vecchia sedia da scuola. In mezzo al vialetto, davanti alla tomba di famiglia. Il cappotto e il cappello di lana, il mazzo di fiori ancora fasciato nella carta plastificata. Margherita gialle e crisantemi. Sola e in silenzio.
Mi ricordo da piccolina quando si andava al cimitero di Gimigliano, Calabria, provincia di Catanzaro. Lì ci sono i miei morti. Non a Genova dove sono nata. Lì riposa da quasi un anno la nonna. Lo ricordo questo cimitero perché portare i fiori era un rito. Non nei giorni dei defunti, ma in estate. Si seguiva la mappa ormai impressa nella memoria per cercare i parenti, le lapidi in marmo, ciascuna con il suo colore, ciascuna con il suo angolo di pietra fredda. Da bambina curiosa guardavo le fotografie e le date di nascita e di morte. Mi colpiva vedere le donne anziane ritratte con l’abito da commare, tutto nero con il pizzo bianco sul petto. E mi colpiva ancora di più vedere i volti dei bambini. Ne avevo trovata una che si chiamava Marianna come me. La foto era in bianco e nero, morta tantissimi anni fa. Un vestitino con un grembiule bianco, capelli biondi con i boccoli. Era difficile da capire, difficile imparare che anche i bambini possono morire. E difficile vedere che nessuno metteva fiori freschi davanti a quel volto di bimba. Le ho sempre lasciato un fiore. Quando la zia va in Calabria lo porta al mio posto. La ghiaia dei viali fa lo stesso rumore sotto le scarpe, in ogni cimitero. Non sono mai stata in Veneto, a trovare il nonno. Ma prima o poi ci andrò.