Archive for the 'Luoghi' Category

Genova, da una finestra in piazza Alimonda si può veder morire un ragazzo

Piazza Alimonda. La nonna Franca abitava proprio in questa piazzetta, una finestrella sulla facciata della chiesa, smontata a fine 800 da via XX Settembre e rimontata in questo snodo della città, vicino alla stazione Brignole, al centro, ma anche all’ospedale e ai piedi della collina di Albaro. In piazza Alimonda è morto Carlo Giuliani. Un ragazzo. Lo ricorda così la targa nell’aiuola davanti alla chiesa, che qualcuno pochi giorni fa, come si vede nella foto, ha preso a martellate e imbrattato di nero. Oggi a Genova, a undici anni dal G8, un corteo ha ricordato Giuliani e le violenze di quei giorni. Ho visto Diaz, il film di Daniele Vicari, solo adesso. Salto da un argomento all’altro: mia nonna, Giuliani, il corteo, il cippo, il film. Ma ho un filo in testa che tiene unito tutto.
Il giorno prima dell’inizio del G8 eravamo andati a trovare la nonna. Dal centro storico sigillato con cancellate nei vicoli siamo usciti dalla zona rossa mostrando i documenti di residenti, abbiamo superato quella gialla. E ci siamo ritrovati nel deserto di via Teodolinda e piazza Alimonda. Ricordo che io e mio papà abbiamo pensato: se in questa parta della città non ci sono controlli sarà qui che ci saranno scontri. Un pensiero da genovesi che conoscono la città. Mia nonna, dalla sua finestra, sentiva urla e scontri. Un giorno mi ha detto “questa finestra è il mio cinema”. Poi è arrivato il cinema davvero. Il film di Vicari è un colpo allo stomaco. Una signora accanto a me se ne è andata dopo un’ora, dopo che i denti erano stati spaccati, e i calci, e il sangue, e quei corpi che sembravano morti. Nel film c’è piazza Merani. L’insegna del Dì per dì, le finestre del primo piano sono quelle dove abitavano i nonni, dove è cresciuto mio papà. La Diaz è stata la sua scuola, quando era un istituto magistrale. Mi chiedo come sarà stato per gli studenti tornare in classe, con le pareti piene del sangue di altri ragazzi. Si unisce tutto: i ricordi della nonna, la finestra da cui si può veder morire un ragazzo, le immagini di un film che però è anche la tua città. Ricordo un vecchietto che a una cancellata che sbarrava Porta Soprana ha chiesto al finanziere che la sorvegliava: “Scusi, sono uscito di casa stamattina e i cancelli erano aperti. Ora che li avete chiusi non so più come rientrare a casa”. Inutile dare indicazioni, nomi di strade, piazze. Chi indossava la divisa di Genova non sapeva nulla.

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Genova, parole sulle pietre

Genova, solo pochi passi. Un madonnaro ha lasciato il suo disegno di gessi colorati incustodito accanto alla cattedrale. Melina bacchetta chi la ostacola. Aveva scritto in rosso uno dei suoi messaggi sotto i portici di piazza De Ferrari, l’avevano cancellata. E lei ha riscritto, perché le parole “sono più importanti di un muro”. E c’è un racconti comparso in una notte. Parole scritte in corsivo bianco, si trovano in tutto il centro storico. Mi piacerebbe avere una mappa con segnate le pagine di questo romanzo urbano. Mi piacerebbe dare un volto e un nome al suo autore.

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Perugia, una città un po’ di tutti

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Perugia è bella, pietre bianchissime, vicoli stretti, mattoni. È viva, piena di gente. Attraversata da scale mobili, vista sospesa sulle colline. Il Festival internazionale del giornalismo si adagia nel suo centro storico in modo naturale. Non ci si sente mai ospiti, si arriva a sentire questa città un po’ di tutti. Considerazioni a margine. Il Festival è un’occasione. Bisognerebbe esserci sempre. Perché ti confronti, pensi, guardi quello che fanno altri, parli di quello che fai tu. Capisci cosa puoi sperimentare, cosa invece proprio non si può fare. Idee tante, chiacchiere ancora di più e qualche esempio concreto. Ma anche parlare parlare parlare a volte fa bene. Ci sono i grandi nomi e quelli meno conosciuti, volti che solitamente conosci dietro un tweet e chi si affaccia a un mondo che ha decine di declinazioni. C’è sempre la curiosità. Quella non manca a nessuno.

“Ma la torre arriva in alto”? Il presidio della Wagon Lits spiegato a Sara, 3 anni

“Ma la torre arriva in alto alto”? Sara è piccolina, avrà tre anni. E’ seduta accanto a me sul treno in partenza al binario 23. Milano Centrale, verso Pavia e Voghera. Fermi al binario con qualche minuto di anticipo, c’è tempo per guardarsi attorno. Un cartello dice che per la torre bisogna andare al binario 24. La torre. La mamma di Sara le spiega con calma. “Vedi, guarda gli striscioni. Ci sono dei signori che stanno sulla torre”. La piccola prova a guardare fuori dal finestrino, ma proprio non ci riesce a vederli. “Quei signori” sono i ferrovieri della Wagon-Lits, 800 persone che rischiano il licenziamento. La torre è il loro presidio, dall’8 dicembre. I genitori di Sara parlano tra loro, a bassa voce, quasi per non farsi sentire dalla bambina aggrappata al finestrino: hanno una conoscente tra gli 800 lavoratori, ha perso il posto, niente più lavoro. Non si può partire o arrivare a Milano Centrale senza pensare a loro. Fino a un mese fa era rimasto lassù anche Giuseppe Gison, pavese, sospeso nell’incertezza del futuro e su quel traliccio traballante per 45 giorni e 45 notti. “Mamma, ma dove abitano questi signori”? E’ ancora Sara a chiederlo. Le passano davanti, attraverso il vetro del finestrino, le tende del presidio. E lei proprio non riesce a immaginarli questi papà che stanno su una torre. La risposta che lì ci dormono non la soddisfa tanto, ma poi il pensiero passa. I treni fischiano quando si passa accanto al presidio. Lo sguardo cade sugli striscioni, lungo le pareti della stazione, all’interno e all’esterno. Non si può viaggiare sui treni, scendere e salire nella grigia Milano senza pensare a chi lì urla la sua difesa per il lavoro.

Camminando per Pavia, periferia vicina

Ho camminato un po’. Strade che di solito non percorro, o che mi passano accanto veloci, lontane dal centro. Dopo giorni di gelo che toglie il respiro, oggi c’era il sole e 3 gradi. Tanti rispetto ai -14. Così ho camminato. Pavia, via Ferrini e poi via Fasolo. Sui marciapiedi la neve rimasta è diventata ghiaccio. Si procede a bordo strada. Davanti a me una signora parla al cellulare. Poi chiude la telefonata. Si sente seguita, si gira. Sono solo io, che tengo il passo. Superiamo gli operai che lavorano in via Fasolo. La strada, chiusa al traffico da un paio di settimane (prima si è aperta una voragine per la fogna, poi si è scoperta una perdita di gas) ha un’aria irreale senza auto. Passano due anziani in bicicletta, in discesa, comodamente in mezzo alla strada, chiacchierando. Gli operai scavano. L’odore di gas non si sente più. Ma credo passerà ancora del tempo prima di vedere chiuso il buco. Mi infilo nelle stradine del Crosione, che portano i nomi di regioni e località italiane. Anche qui si cammina in mezzo alla strada, marciapiedi ghiacciati. Piazzale Crosione è sempre stato il ritratto di una periferia decadente anche se in mezzo a graziose villette. Quattro palazzoni popolari svettano e si appogiano su un piccolo parco giochi, ingombranti. Adesso è peggio. Le gru costruiscono appendici dei palazzi, il parco è un cantiere. Fermo. Prendo il caffè con un amica, biscotti fatti in casa, progetti in un giorno senza lavoro. Poi riprendo a camminare. Ripercorro le stesse strade, poi arrivo al Naviglio. E’ una lastra di ghiaccio. Ieri una nutria camminava sull’acqua che non è acqua. Oggi c’erano sacchi dei rifiuti e sedie lanciati e incastrati su quella lastra sottile. Viale Sicilia, auto parcheggiate, palazzi, ancora case popolari. Uno straccio bianco è rimasto impigliato sui rami. Alzo lo sguardo. In fondo sulla sinistra si vedono le guglie del cimitero di San Giovannino. Ma io vado a destra. Seguo lo scroscio dell’acqua che si butta in piccole cascate cercando il Ticino. Vecchie strutture arrugginite di chi un tempo doveva controllare le chiuse. Ora sono solo monumenti abbandonati e dimenticati. Viale Partigiani sale lenta. Un gruppo di studenti aspetta l’autobus. Il quartiere di Santa Teresa vive operoso, ha il suo panificio, la farmacia, piccole botteghe di una volta. Qui spesso salta la consegna della posta, il vecchio postino è andato in pensione e lo sostituiscono colleghi che coprono la sua zona ricorrendo a ore straordinarie di lavoro. Quando si riesce. Siamo vicini al cimitero quindi ci sono i marmisti con le loro lapidi esposte alla neve una appoggiata all’altra. Sulla vetrina delle onoranze funebri con gli occhi miopi leggo “Prestitempo”: è una finanziaria, ma mi suona fuoriluogo. Sui muri, sui tabelloni degli autobus, ci sono decine di adesivi “Gesù sta arrivando”. Tiro fuori il cellulare e scatto una foto. Raggiungo un colorificio. E’ lì che sono diretta. Poi torno indietro. Viale Gorizia ha villette basse e giardini. Sul lato del collegio del Maino corre la pista ciclabile, a tratti così stretta da dover scendere e proseguire a piedi. Passo di lì, i piedi immersi in una fanghiglia di neve e terra e foglie. La città è triste. E’ la neve?

Neve. Ricordo giallo e arancio


Nevica. Non molto in effetti. Forse è più pioggia, ma c’è un leggero strato bianco sull’aiuola che vedo dalla finestra. Pavia aspettava la neve. Ne ha un assaggio in queste ore, magari nella notte i centimetri aumenteranno. Per ora, sono le 22, siamo fermi a uno. Scatto una fotografia aprendo la finestra della redazione. La luce è arancione, si vedono i fiocchi sotto il lampione. Neve significa chiedersi se domani mattina vedrò dalla finestra sul tetto nella mansarda solo uno strato bianco. Neve significa chiedersi se domani si giocheranno le partite di calcio. E questo cambia molto nel giornale del giorno dopo. Di ricordi di neve se ne pescano parecchi, basta pensarci qualche minuto. Però, così, appena vista la luce giallastra, mi sono ricordata di un capodanno di tanti anni fa. Ero una bambina, la mia famiglia era invitata a cena da una compagna di scuola. Non lontanissimo da casa, però in un quartiere diverso. Io tra i vicoli del centro storico, lei in cima alla collina di Carignano. Quando siamo usciti, a festeggiamenti finiti, c’era la neve. Quella fresca della notte, intatta anche in una città. Intatta perché nessuna auto circolava, tutti intenti a rincorrere il nuovo anno. Siamo arrivati a casa, io e papà ci siamo cambiati, abbiamo aggiunto qualche strato sotto le giacche e siamo usciti di nuovo. E’ un ricordo giallo arancio, come le luci artificiali sulla strada bianca.

Muri


Muri. Cammini lungo un marciapiede e incontri case, villette, condomini, castelli. Uno dietro l’altro. Muri diversi, mattonelle o intonaco, lisci, ruvidi, nuovi, abbandonati. Belgioioso, poco più di venti chilometri da Pavia, 6500 abitanti, non è più paese ma città. Lo conoscono fuori dalla provincia per il castello, per la fiera del vintage. Quel castello che da un lato è regale con il lungo giardino e dall’altro lato è fatiscente, proprio quello che si affaccia sulla piazza principale. Ci sono panchine nuove per sedersi lungo la passeggiata che guarda alle mura del castello, un cartello che ricorda che i lavori sono in corso, roccia che viene via, fili di ferro come una gabbia per non far scappare l’attrazione, il simbolo del paese. Pardon, città. Belgioioso è case che si dilatano lungo le provinciali battute da camion e smog e rumore. Muri diversi, uno accanto all’altro. Ognuno ha fatto da sé, ognuno ha deciso come rivestire la propria casa. Senso di incompletezza. Come quel castello un tempo maestoso.

Aspettando Maria

 

Dopo la curva conta 4 fermate del 39. Oregina. Stradina stretta, gradini. La chiesa. E una vista azzurra. C’è Genova lá sotto, oltre quel muretto, con le panchine troppo lontane dal bordo per poter guardare sotto. Il mare, il porto, le gru che oggi non sollevano i container, è domenica. O forse si muovono, ma io da così in alto non le vedo. Oregina. La campana chiama la gente per la messa. Entro. Un anno fa mia nonna se ne è andata. La nonna Maria. Adesso, a una settimana da Natale un prete che nemmeno la conosceva chiederà puntando gli occhi al cielo di ricordarsi di lei. Si fanno dire le messe per i morti. E’ una tradizione. Sarà che sto leggendo “Cosi è la vita” di Concita de Gregorio, capitoli di morte e di come raccontarla, di come parlarne. Sarà per le pagine lette in treno in viaggio per Genova, ma a questa cerimonia sociale oggi presto particolare attenzione.
Mia mamma e mia zia ci tengono a questa messa. Hanno faticato per trovare una chiesa, pare che ci siano delle liste d’attesa. Questa non è la chiesa del quartiere di mia nonna, ma Oregina è il primo angolo di Genova che ha conosciuto quando ha lasciato la Calabria. Io ricordo la nonna senza bisogno di farlo fare a un altro. Ma sono entrata in questa chiesa bianca perché è uno di quei momenti in cui la famiglia ha bisogno di essere insieme. In questo luogo, proprio qui sulle alture di Genova dove mia nonna ha cresciuto quattro figli da sola quando nonno Clemente è morto sul suo camion.
Una chiesa piena di gente, un prete che parla mettendo l’accento su alcune parole. Mi guardo attorno, lo ascoltano in pochi. Però la si definirebbe una messa partecipata: ci sono i canti, i bambini che leggono le preghiere, i disegni fatti al catechismo per l’ultima domenica di avvento, la mostra dei presepi. Io mi concentro sulle parole perché aspetto di sentirgli dire “Maria”, non la madonna, ma la mia “Maria”, la nonna. Per questo vorrei che non scorresse via così il suo nome, vorrei che la chiamasse nonna o mamma. Mi concentro e lo sento raccontare ai bambini l’annuncio dell’arcangelo Gabriele. Due frasi mi colpiscono. Il sacerdote spiega la reazione di Maria. “Maria ha guardato l’angelo stupita e gli ha detto ma come faccio ad avere un figlio se non sono ancora andata in sposa a Giuseppe”? Dopo una pausa il sacerdote aggiunge: “Per far nascere Gesù basta dire ti voglio bene”. Io lo so che pochi bambini lo stavano davvero ascoltando. Lo so che chiacchieravano o guardavano in alto pensando al Natale, ai giochi, ai regali. Lo so. Ma non si può rischiare di creare confusione nei bambini. Mi immagino un piccoletto biondo in prima fila che dice all’amichetta “ti voglio bene ora devi far nascere un bambino”. Ripeto, forse sarà il libro di Concita de Gregorio, scandito dalle domande che fanno i bambini, domande che spiazzano, e dalle risposte degli adulti che sono troppo spesso una presa in giro. Sarà per questo. Eppure vorrei che non si prendesse alla leggera quello che si dice ai bambini. Semplificare va bene, ma non se poi non si può dare risposte alle domande. Penso a questo mentre aspetto. C’è un momento della messa in cui il sacerdote chiede di ricordare il papa, il vescovo, e i nostri cari che non ci sono più. Il prete inizia a leggere i nomi. Ecco Maria. Dopo di lei Bruna. Un’altra figlia, mamma, donna. Non so. Penso che Maria è un nome in un elenco. Penso che dopo la messa si dà un’offerta al sacerdote per aver pronunciato quel nome, per aver chiesto a dio di ricordare i nostri morti. Penso che mia nonna era molto di più di un nome in un elenco.

Promesse di spray


“Come una goccia appesa al rubinetto temo la sete”. Leggo questa frase incollata sulla targa di un asilo. Centro storico di Pavia, viette strette, ciotoli, mattoni rossi. Non si incontra quasi nessuno. Il postino che si ferma ad ogni portone, un vecchietto con la sciarpa rossa e il bastone, una ragazza che cammina rapida quasi corre. Basta. Cammino e tengo in mano la macchina fotografica, la passo da una mano all’altra perché senza guanti le dita si gelano. Cosa vedo? Una mela rinsecchita appoggiata tra le pietre di una facciata, un vaso con l’edera che scende sull’intonaco giallo. Mary Poppins, sagoma scura, sotto le cassette della posta. Messaggi sui muri, disegni, promesse di spray colorato.

Genova, la paura di non essere là

Sono morte sette persone a Genova. Travolte dall’acqua, quell’acqua che soffoca, che copre, sommerge, ribalta, distrugge.  Una mamma ancora abbracciata alla sua bambina. Se sei lontano da casa puoi solo guardare le immagini che scorrono sul computer. Puoi solo leggere l’aggiornarsi di un racconto in diretta che ti tiene sospeso. C’è l’acqua che scorre come un torrente e invade le scale del sottopasso di Brignole. C’è Brignole, la stazione allagata, quel mare marrone che raggiunge la via dello struscio, che risale via XX e la gente si ferma a un passo dal toccare il fango. Ho cercato mio fratello, era in biblioteca lontano dal caos. Ho cercato mia mamma. Mi ha risposto subito. Una mattinata difficile, bloccata un’ora nell’atrio di un palazzo, poi nel pomeriggio è rimasta a casa. La zia Romy dal Bisagno a Oregina ha camminato per tornare a casa, via dall’ufficio che iniziava ad allagarsi.  Impossibile usare gli autobus, una lenta scalata attraversando tutta la città sotto la pioggia. La zia Luciana con nonna Antonietta è rimasta bloccata a casa, quarto piano, perché il primo piano della palazzina è allagato. Ospitano una ragazza giovane con un bimbo. Si arrangeranno sul pavimento. Storie piccole rispetto ai morti, lo so. La nonna Franca abita in piazza Alimonda, proprio la piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Finestrelle che bucano la facciata della chiesa. Non rispondeva al telefono. E a pochi metri da casa sua l’acqua continuava a salire. Fa paura. Poi mi chiama mia mamma. La nonna è andata da una vicina, una famiglia che ha lasciato il Marocco, una mamma con i suoi bimbi. Si tengono compagnia perché non possono uscire, è andata via la luce. Mio papà è in viaggio da Roma, ha preferito tentare comunque il rientro. Il suo treno è partito in ritardo, mezz’oretta fa era a Massa. Aspetto un messaggio per sapere che è arrivato a casa.

Vedere le immagini della mia Genova sommersa fa male, uno stato di ansia che ti fa sentire i battiti del cuore forti sul collo. Non puoi fare niente. E fa rabbia. Perché riconosci gli angoli e le strade, i muri, le piazze, ti ricordi che il letto del Bisagno era pieno di alberi e tronchi e che tutte le volte che sei andata a Marassi  allo stadio e ci sei passata hai pensato che quel torrente è secco e pericoloso. Fa rabbia perché senti di ragazzini fatti uscire da scuola e abbandonati alla strada. Vedi una bimba con l’acqua fino alla pancia che dice che ha paura. Senti la storia di una ragazzina, Martina, persa di vista dagli amici. Pensavano fosse morta. L’hanno ritrovata. Premi il tasto F5 della tastiera per aggiornare la pagina del Secoloxix e di Repubblica e il numero dei morti cresce. Il problema è che non sei lì. Non sono lì, e se dovesse succedere qualcosa so che non me lo perdonerei.

Milano all’improvviso

Milano. Decido al volo, all’improvviso. Guardo gli orari dei treni  mentre mangio un pomodoro. Mi piace sempre il cielo che si fa scuro quando entri in stazione. Parto con l’idea che ho bisogno di fare due passi, non qui. Pavia-Milano è una distanza piccolissima, ma è una distanza. Un paio di scarpe, una maglietta, un regalo per mio fratello. Ma più che altro mi guardo attorno, circondata da persone che corrono o passeggiano, estremi. Ritrovo quell’indifferenza metropolitana che si incontra spesso all’estero.

Un uomo ha appoggiato la bicicletta in mezzo a uno spartitraffico e seduto su uno sgabello pieghevole disegna. Gli passano accanto i tram, rumorosi, pieni. E un cartello ricorda che devono andare a passo d’uomo. Penso ai numero incidenti degli ultimi mesi, mi chiedo se il cartello c’è per questo. O se c’era già. Una ragazza ha una maglietta con una scritta sulla schiena che attira l’attenzione: “E tu in cosa credi?”. Ne vedo un’altra con la t-shirt stile Minetti (“senza la t-shirt sono ancora meglio”). Non si parla una sola lingua in questa città, rumorosa ma non abbastanza da non permetterti di ascoltare i suoni di voci di paesi diversi. C’è un po’ di tutto, giacche e cravatte, abiti eleganti, turisti con le mani piene di sacchetti, colori, eccentrici, moda, vecchie signore. Una bici dorata, una bici che cade scivolando lungo il palo a cui è legata. Sono anche entrata in duomo. Mi colpisce l’esercitoall’ingresso, il soldato in mimetica che mi dice “open” e controlla il contenuto della borsa. Dentro è buio, ti chiedono di fare silenzio. E allora, silenzio.

Normandia-Bretagna/2. Facce

Cammini, ti guardi attorno. Quello che vedi dipende dalla concentrazione, dai pensieri del momento. Mi piace guardare le facce, i volti della gente che come  me cammina, si guarda attorno. A Giverny una coppia di orientali è seduta su una panchina davanti alla casa di Monet, immersa nel verde e nei colori dei suoi fiori. Rubo uno scatto, la foto è mossa, ma mentre sono lì a guardare quella donna ben vestita e l’uomo in grigio penso alla panchina di Dolls (Takeshi Kitano) lui e lei che si aspettano una vita.

All’estero la sensazione è che sia tutto più semplice, meno nervoso. In spiaggia ad Etretat un bimbo si avvicina all’acqua vestito, con le scarpette da ginnastica ai piedi. Prima scappa, poi fa un passo, poi i piedi finiscono immersi nel mare. I genitori sorridono, niente strilli, reazione più italiana. Forse parlo per luoghi comuni, a capofitto in stereotipi da due soldi. Ma penso alle facce. Nell’anziano che chiede l’elemosina a Dinan, nell’uomo dalla barba bianca che tiene sulla mano un gabbiano a Saint Malo, nel ragazzo che parla da solo seduto su un muretto di Concarneau con piume di uccello appuntate a raggera sui capelli, nel sorriso di Mireille mentre prepara la colazione all’hotel San Pedro, nella fatica di Jean Pierre e Jacqueline che hanno costruito con le loro mani lo splendido giardino e la casetta ad Alençon. In tutte queste facce vedo la capacità di prendere un respiro e affrontare le giornate, la vita, senza sprecare parole inutili. Forse è solo la malinconia da ritorno.


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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