Archive for the 'Film' Category

Autocensura e libertà

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“Lo spazio della nostra libertà significa prenderla e viverla. Siamo in una società che si sente assalita, in guerra. Accetta di essere sotto controllo e di rinunciare a delle libertà fondamentali. Lo accetta. In una società così, il nostro nemico peggiore, per noi che facciamo questo mestiere e raccontiamo storie, è l’autocensura. Che ha un corrispettivo nelle direzioni dei giornali, nelle produzioni cinematografiche, nelle distribuzioni, ti arrivano messaggi chiari, per cui ti dicono “a me questo non interessa, è inutile che me lo porti”. Allora tu scrivi una prima volta l’articolo e ti dicono no, e non lo pubblicano. Poi lo scrivi una seconda volta, e alla terza non lo scrivi più, non glielo porti proprio. Questa cosa si chiama autocensura. Smetti di combattere per le cose in cui credi e quello che fa veramente la differenza tra una democrazia e una cosa che non è democrazia è questo. Non è il fatto che siano scritte delle regole, ma il fatto che i cittadini che fanno i giornalisti, i registi o i narratori non rinuncino. Se rinunciano allora giochiamo un’altra partita. Lo dobbiamo sapere”.

Sono parole di Daniele Vicari, regista del film Diaz. Insieme al giornalista Calo Bonini e al regista di Acab Stafano Sollima era al Festival del giornalismo di Perugia. Penso al coraggio che serve per raccontare e a quanto sia più facile lasciare tutto in un cassetto. Penso a quanto sia importante aprirli questi cassetti, e scrivere, parlare, filmare, raccontare. Fregandosene dei no. Perché poi un sì arriva sempre. Questa, appunto, è un’altra partita.

Per vedere l’intervista, il link al sito del festival.

Still life, cercarsi e non capirsi

Still life, natura morta (Jia Zhang-Ke, 2006). Si cercano, viaggiano su un fiume che non ha avuto pietà di case e persone, attraversano pietre, edifici crollati. Si trovano, ma non hanno più niente da dirsi. Si trovano e si lasceranno ancora. Si trovano e non capiscono cosa è successo, cosa ne è stato del passato. Cercano e chiedono aiuto, si parlano, parlano, incontrano, eppure tutti sono sempre troppo lontani, vengono da posti diversi, punti diversi di una mappa nello spazio e nel tempo. Per questo incomprensibili. C’è il caldo, il sudore su canotte bianche sporche di mondo, c’è l’acqua, la polvere, una camicia pulita, liquore, sigarette, te, da offrire in cambio di memoria.

Born into brothels, non si può scegliere

Avijit ha dieci anni, le fossette sulle guance paffute. Suo padre non può fare a meno delle droghe. Sua madre è morta, il suo protettore le ha dato fuoco. E il sorriso di questo bambino si spegne: “Nella mia vita non c’è più speranza”. Suchitra vive con sua zia, una prostituta. Ha un sorriso scomposto e un destino segnato. “Non c’è rimedio a questa situazione”? Lei ci pensa prima di rispondere. Guarda in basso, poi gli occhi tornano alla telecamera. “No”. Born into brothels (film documentario di Zana Briski e Ross Kauffman, 2005) racconta i volti dei bambini nati nei bordelli di Calcutta. Zia Zana – come la chiamano loro – è una fotografa e a loro insegna a guardare il mondo attraverso immagini da scattare. Una macchinetta ciascuno, rullini da usare con cura. E le loro fotografie, quello che vedono questi bambini è un mondo fatto di donne costrette a subire uomini ubriachi, piccoli di pochi anni legati con una catena, sporcizia, piatti da lavare sul pavimento. Ma anche colori, gli occhi che si illuminano.
Destini segnati. Questi bambini sorridono comunque, più consapevoli degli adulti. E’ un documentario che racconta pezzi di vita, e che prova a cambiare il futuro. Difficile, perché nemmeno le scuole e i collegi, nemmeno le missioni, sono disposti a prendere i bambini nati nel bordello. Con la fotografia trovano una possibilità. Che è diventata un’associazione, Kid with cameras, per raccogliere fondi e provare a riscrivere i destini segnati. Questo mi colpisce, un bambino di dieci anni che sa già cosa lo attende, e non perde tempo a sognare un futuro da astronauta o da ballerina. Pensa solo che un giorno dovrà badare ai fratelli più piccoli. E che no, non c’è speranza, se non arriva qualcuno da un altro mondo a tenderti la mano.

Serve tempo. Aspettare, dimenticare, sognare

Aspettare, far passare il tempo. Vedere cosa succede. E una soluzione: sì, poi tutto si aggiusta. Hong Kong Express. Wong Kar Wai. Due storie. E dentro tutto quello che vorremmo saper raccontare. Mi avevano detto che è uno di quei dieci film che vorresti non avere ancora visto, per poterti godere ogni immagine. Per poterti sorprendere ancora. E’ uno di quei film che aiuta a respirare meglio.

Lui è appena stato lasciato. Lei non lo cerca, ha un altro. Lui si dà un mese di tempo. Per aspettarla, per dimenticarla. E ogni giorno, fino a quel primo maggio, uno dopo l’altro compra 30 barattoli di ananas. Lei lo adorava. “Se anche i ricordi sono come i barattoli di ananas spero che quel barattolo non scada mai. E se proprio deve avere una data di scadenza spero sia tra 10mila anni”. Una data di scadenza. Un’indigestione, fino a vomitare tutto, ananas e memoria. I ricordi restano, non si vogliono non si possono cancellare, ma un viso nuovo porta uno strato di polvere più profondo.

Lui è appena stato lasciato. Lei ha deciso di cambiare. Di andare e non tornare. Lui cerca di capire attraverso il suo tempo, il suo spazio, i suoi oggetti. Incontra il sogno di scappare, indossato sbarazzino da una ragazza che lo cerca. Che lo vuole. Ma non abbastanza da smettere di sognare. C’è un tempo del silenzio, c’è un tempo per dormire, un tempo per ricordarsi di non smettere di osservare, per diventare più attenti. E’ quello il tempo in cui bisogna capire. Aspettare? Forse. Ma con una data di scadenza.

Le parole degli altri, il silenzio

Il tempo che ci rimane. Nazareth, vista con gli occhi di un bambino, poi di un ragazzo costretto a scappare, poi di un adulto che riesce a tornare. Il conflitto arabo-israeliano è come vive una famiglia, sono le lettere da scrivere a chi è lontano, il coprifuoco, il silenzio. Del silenzio mi piace quello che dice il regista, Elia Suleiman.

Trovo che il silenzio sia molto cinematografico. Il silenzio è una cosa meravigliosamente sovversiva. Tutti i governi lo odiano perché è un’arma di resistenza. Quando leggi una poesia, per esempio, il respiro gioca un ruolo fondamentale. Molte persone si sentono intimidite dal silenzio, perché le destabilizza, le priva della loro identità. Prendiamo i film commerciali, con una narrazione classica: uno prega che arrivi un momento di silenzio, e quando il film è finito ti accorgi che non è stato detto niente; allo spettatore non è stato detto niente su cui riflettere. Il silenzio ti fa mettere in discussione le cose. E’ un momento di condivisione, e di partecipazione.

(Elia Suleiman)

Il nastro bianco

Il nastro bianco (Das Weisse Band)
di Michael Haneke (2009)

Ci sono storie una dietro l’altra, parentesi, intrecci, momenti. Spunti di riflessione. C’è la violenza di un padre sulla figlia, il disprezzo per il diverso. Per la donna. Per il proprio presente. c’è lo sguardo dei bambini, che sanno anche essere cattivi. C’è l’immagine di uguaglianza – nell’abito con il colore del lutto, nei capelli raccolti delle ragazze – e l’estrema differenza – nei muri decadenti delle case e nei muri decorati con enormi arazzi delle ville. Ci sono livelli: di comprensione, di accettazione, di ricchezza, di fatica. C’è la paura e la religione. L’amore che sembra, l’amore che non è, l’amore che cambia, l’amore che sfuma. E c’è il niente. I campi infiniti, la neve. La strada da percorrere, anche a piedi, anche se si deve andare lontano. C’è il peso da sopportare, per sé e per gli altri. Il rapporto padre-figlio, padre-figlia, marito-moglie, uomo-donna, madre-figlio. La donna. Insignificante perché non può decidere, perché rimanda ogni responsabilità al marito. Forte se lasciata sola nella gestione della casa. Sola, quando rifiutata. Inutile quando inferma e destinata a lavori meno impegnativi fisicamente, ma anche meno sicuri, per accelerare la selezione naturale, che si porta via chi non serve alla società. La donna indipendente e libera solo se ricca. Solo se può uscire di casa e affacciarsi a un’altra finestra.

Principi, principesse e panchine

panchina

Se piangi o ti senti perso o qualcosa hai perso. Ma cosa quando e perché?
Tu quando piangi?
Quando ho perso qualcosa
Cosa hai perso?
In genere tanto. Con te la possibilità di vederti serena.

Lei è seduta su una panchina. Le foglie degli alberi la riparano dal sole. Sta leggendo. E’ concentrata, le mancano poche pagine del libro. Non c’è niente attorno. Legge, ma si capisce che aspetta qualcuno. Se sente un rumore alza la testa, poi guarda l’orologio. Torna a leggere. Apre la borsa, l’immagine non scende nel dettaglio, ma lascia vedere altri libri. La scena si ripete, fino all’ultima pagina del libro. Lei alza la testa, con il pensiero è lontana, lo dicono i suoi occhi, sembrano persi. Resta così qualche minuto, come se da un momento all’altro dovesse succedere qualcosa. Ma non succede niente. E come se si risvegliasse da un sogno lei prende il suo libro lo mette in borsa e si alza. Davanti alla panchina resta ferma, in piedi. Tira fuori un altro libro, uno di quelli che nella scena precedente ci erano stati fatti vedere. Lo appoggia sulla panchina. E se ne va.  Finisce così. Senza aggiungere altro. Lascia solo che i pensieri completino la storia. Lei aspettava qualcuno, aveva portato un libro da condividere, forse era sicura dell’arrivo. Ma perché lo lascia lì? Chi  guarda capisce che è troppo tardi, che la persona attesa potrà avere il libro, ma non lei. Chi guarda capisce che si sono persi. Chi guarda non può dire se si ritroveranno, può dire che lei lo ha aspettato, che lo ha cercato, che lo voleva lì. I film ci fanno vedere solo un momento, tutto il resto, quello che c’era prima, quello che sarà poi, possiamo solo immaginarlo e sognarlo. E in quell’unico momento che ci viene mostrato possiamo vedere tutto e niente, possiamo vedere oltre. Ma sono solo pensieri, pura immaginazione.

(La Principessa verde e il Principe malinconico, dai Racconti sotto la luna)

Revolutionary road

revolutionary

“Perché non mi dici quello che senti?”

“Perché  non sento niente”

Gran Torino, parlano i volti

gran-torinoUnico bianco in mezzo a quelli che lui stesso chiama i “musi gialli”. Duro, nelle espressioni del volto, nelle rughe del viso, in quella tosse che lo segna. Mr Kowalski si ritrova solo con il suo giardino da sistemare, anche quando l’erba è già cortissima, è da solo con la sua bandiera americana, che sottotono sventola. E’ da solo in casa, dopo la morte della moglie, solo perché i suoi figli non esistono, se non per telefonate di circostanza, e per l’attenzione avida di chi tiene sott’occhio l’eredità di famiglia. E’ solo perché si comporta da stronzo. E’ la prima cosa che ti viene da pensare. Poi pensi che un po’ stronzi lo sono anche i figli. E i nipoti. Lui però ha una storia alle spalle. Ha ucciso, e porta dentro il volto della guerra. I figli invece non hanno niente, non sanno niente. Mr Kowalski inciampa nei suoi vicini di casa, viene travolto dai ringraziamenti della famiglia del giovane Thao, a cui lui ha salvato la vita. E’ acido Mr Kowalski. Ogni tanto strappa un sorriso, anche se la gente in sala ride come se fosse davanti a un comico, forse perché non riesce a digerire la tensione. Perché l’aria è tesa in Gran Torino. Gli scontri tra bande, la violenza, le botte, lo sfregio, la paura. E la vendetta. Nei confronti della vita, forse più che essere diretta contro qualcuno.
Gli estranei che qui sono anche stranieri, arrivano a contare di più nella vita del vecchio Kowalski, a cui Clint Eastwood dà il volto. Contano più della sua famiglia, semplicemente perché lo accolgono, così com’è.
Ho pensato a una possibile versione italiana di questo film. Magari la storia di un vecchio pensionato, che si trova da solo in un palazzo abitato da facce colorate, diverse dalla sua. Diversa la lingua, la pelle. Potrebbe trovare accoglienza in una di queste nuove famiglie. Ma credo che l’ipotetica versione italiana di questo film sarebbe una storia melensa, senza l’accento sui volti, a cui Clint Eastwook è riuscito a dare il ruolo di narratori.

La classe – Entre les murs

I miei muri, quelli della mia classe del liceo, erano giallini. Parlare di “muri giallini” era un modo per dire “soffocanti”. Tra quattro pareti, che siano gialline, verdine o grigette, gli studenti passano cinque anni, tutte le mattine, con un gruppo-classe imposto e che si pretende debba necessariamente essere funzionante. “Entre les murs” è il titolo giusto per raccontare cosa succede in una stanza. Perché è anche il luogo, la sua forma che determina la vita e il comportamento della classe. Essere ammassati o distanti, con i banchi a ferro di cavallo o in fila, avere spazio, luce, aria. Lo spazio chiuso e il sentire una realtà ancora più chiusa porta a reagire, a cercare di uscirne, a volte con violenza, spesso solo a parole. Le mura nel film di Laurent Cantet sono anche il quartiere, le proprie origini, la famiglia. Una scuola in cui sono rappresentanti paesi diversi, quindi multiculturale, può comunque essere “chiusa”. Il paragone con una nostra classe mi sembra difficile. Ci sono le classi con bambini o ragazzi stranieri, ma non c’è in discussione il senso di appartenenza al proprio paese, perché negli studenti italiani stessi non esiste un forte patriottismo. Non sempre pensiamo a cosa si nasconde dietro al multiculturalismo. Non sempre ci fermiamo a pensare che ditero a un bimbo straniero che va a scuola in Italia c’è una famiglia che magari l’italiano ancora non lo parla bene, c’è una mamma che indossa abiti colorati, gli stessi che usava nel suo paese d’origine e che a noi, e solo a noi, sembrano strani. Vedere cosa succede tra le mura della classe, per capire cosa si nasconde dietro le spalle degli studenti. Non è una cosa che un insegnante può non voler conoscere.

Dancer in the dark

Sapere di dover diventare ciechi dev’essere difficile da gestire, forse cerchi di fissare nella memoria il maggior numero possibile di immagini, di volti, di espressioni, per avere una possibilità in più di vedere, anche se solo nei ricordi. Cosa significa diventare ciechi lo racconta Bjork, che insegna cosa significa ballare nel buio, in Dancer in the dark di Lars Von Trier. Ci fa capire cosa comporta non vedere nulla mentre si lavora, mentre si parla, mentre si cammina, mentre si vorrebbe recitare in un musical. Senza pietismi, senza compassione, molto semplicemente e con quel pizzico di pazzia che segna anche la sua voce e il suo modo di cantare. Il musical che vorrebbe poter ancora recitare non è casuale. Si tratta di Tutti insieme appassionatamente, film musicale del 1965 tratto dalla commedia musicale The sound of music. Devo ammettere che il film lo so a memoria, e sentire Bjork che canta “Le cose che piacciono a me” (che in Tutti insieme appassionatamente la protagonista canta durante un temporale), mentre aspetta la condanna a morte, fa uno strano effetto. Come sia spesso stupido dire e suggerire di cercare un pensiero felice per non pensare al peggio, come sia tremendamente fiabesca questa ricerca (in fondo per volare Peter Pan aveva il suo pensiero felice, prima ancora della polvere magica). Eppure, quando è buio, buio soprattutto fuori, ma non dentro, ci sono musiche, parole, suoni, pensieri che salvano. Dancer in the dark riesce a farti rimanere senza fiato, riesce a farti arrabbiare, diventa difficile stare seduti, si vorrebbe poter cambiare il corso della storia, poter intervenire. Bello e poetico, ma attaccato con le unghie a sensazioni reali, a problemi della vita, alla cattiveria di molte persone, alla Storia, quella fatta – spesso – di decisioni incomprensibili.

Il matrimonio di Lorna

Il titolo originale è “Le silence de Lorna”. Il silenzio quindi e non il matrimonio al centro del film. Perché in fondo è vero, ruota tutto intorno ai matrimoni combinati, per garantirsi la cittadinanza in un paese straniero, per garantirla ad altri, perché diventa un modo per guadagnare soldi per costruirsi un futuro, anche se significa fare affari con chi i soldi li sporca. Però prima di tutto questo c’è il silenzio di Lorna, che accetta di sposarsi con un tossicodipendente per avere la cittadinanza belga, che accetta il modo più drastico per ottenere il divorzio, e cioè far uccidere lui. Lei che in silenzio mette via i soldi, che in silenzio sogna di aprire un bar. Fino al punto in cui lei stessa si spaventa di questa mancanza di reazioni, del suo silenzio davanti a tutte queste decisioni. E così parla. Corre. Rompe la catena di accordi. Rimarrà però da sola, in un silenzio obbligato, rotto solo dalla sua stessa voce che parla a un futuro che non c’è.
Ho visto Il matrimonio di Lorna di Jean-Pierre e Luc Dardenne a Genova, al cinema Corallo, una quarantina di persone sui circa 120 posti della sala, al primo spettacolo della domenica pomeriggio, in una Genova che si prepara al Salone Nautico, che inizia a coprirsi per ripararsi dal vento. Un cinema piccolo, che ospita il film in esclusiva per Genova, anche se una prima apparizione l’ha fatta la settimana scorsa al Sivori. Bello vedere tanta gente per un film così. Perché è un film che sai già ti lascerà un senso di fastidio e amaro, una di quelle storie che non lasciano molto spazio alla speranza, e che fanno riflettere perché sono qualcosa più della trama di un film. Sono lì intorno a noi, fuori dal cinema.


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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