Posts Tagged 'Film'

Born into brothels, non si può scegliere

Avijit ha dieci anni, le fossette sulle guance paffute. Suo padre non può fare a meno delle droghe. Sua madre è morta, il suo protettore le ha dato fuoco. E il sorriso di questo bambino si spegne: “Nella mia vita non c’è più speranza”. Suchitra vive con sua zia, una prostituta. Ha un sorriso scomposto e un destino segnato. “Non c’è rimedio a questa situazione”? Lei ci pensa prima di rispondere. Guarda in basso, poi gli occhi tornano alla telecamera. “No”. Born into brothels (film documentario di Zana Briski e Ross Kauffman, 2005) racconta i volti dei bambini nati nei bordelli di Calcutta. Zia Zana – come la chiamano loro – è una fotografa e a loro insegna a guardare il mondo attraverso immagini da scattare. Una macchinetta ciascuno, rullini da usare con cura. E le loro fotografie, quello che vedono questi bambini è un mondo fatto di donne costrette a subire uomini ubriachi, piccoli di pochi anni legati con una catena, sporcizia, piatti da lavare sul pavimento. Ma anche colori, gli occhi che si illuminano.
Destini segnati. Questi bambini sorridono comunque, più consapevoli degli adulti. E’ un documentario che racconta pezzi di vita, e che prova a cambiare il futuro. Difficile, perché nemmeno le scuole e i collegi, nemmeno le missioni, sono disposti a prendere i bambini nati nel bordello. Con la fotografia trovano una possibilità. Che è diventata un’associazione, Kid with cameras, per raccogliere fondi e provare a riscrivere i destini segnati. Questo mi colpisce, un bambino di dieci anni che sa già cosa lo attende, e non perde tempo a sognare un futuro da astronauta o da ballerina. Pensa solo che un giorno dovrà badare ai fratelli più piccoli. E che no, non c’è speranza, se non arriva qualcuno da un altro mondo a tenderti la mano.

Serve tempo. Aspettare, dimenticare, sognare

Aspettare, far passare il tempo. Vedere cosa succede. E una soluzione: sì, poi tutto si aggiusta. Hong Kong Express. Wong Kar Wai. Due storie. E dentro tutto quello che vorremmo saper raccontare. Mi avevano detto che è uno di quei dieci film che vorresti non avere ancora visto, per poterti godere ogni immagine. Per poterti sorprendere ancora. E’ uno di quei film che aiuta a respirare meglio.

Lui è appena stato lasciato. Lei non lo cerca, ha un altro. Lui si dà un mese di tempo. Per aspettarla, per dimenticarla. E ogni giorno, fino a quel primo maggio, uno dopo l’altro compra 30 barattoli di ananas. Lei lo adorava. “Se anche i ricordi sono come i barattoli di ananas spero che quel barattolo non scada mai. E se proprio deve avere una data di scadenza spero sia tra 10mila anni”. Una data di scadenza. Un’indigestione, fino a vomitare tutto, ananas e memoria. I ricordi restano, non si vogliono non si possono cancellare, ma un viso nuovo porta uno strato di polvere più profondo.

Lui è appena stato lasciato. Lei ha deciso di cambiare. Di andare e non tornare. Lui cerca di capire attraverso il suo tempo, il suo spazio, i suoi oggetti. Incontra il sogno di scappare, indossato sbarazzino da una ragazza che lo cerca. Che lo vuole. Ma non abbastanza da smettere di sognare. C’è un tempo del silenzio, c’è un tempo per dormire, un tempo per ricordarsi di non smettere di osservare, per diventare più attenti. E’ quello il tempo in cui bisogna capire. Aspettare? Forse. Ma con una data di scadenza.

Le parole degli altri, il silenzio

Il tempo che ci rimane. Nazareth, vista con gli occhi di un bambino, poi di un ragazzo costretto a scappare, poi di un adulto che riesce a tornare. Il conflitto arabo-israeliano è come vive una famiglia, sono le lettere da scrivere a chi è lontano, il coprifuoco, il silenzio. Del silenzio mi piace quello che dice il regista, Elia Suleiman.

Trovo che il silenzio sia molto cinematografico. Il silenzio è una cosa meravigliosamente sovversiva. Tutti i governi lo odiano perché è un’arma di resistenza. Quando leggi una poesia, per esempio, il respiro gioca un ruolo fondamentale. Molte persone si sentono intimidite dal silenzio, perché le destabilizza, le priva della loro identità. Prendiamo i film commerciali, con una narrazione classica: uno prega che arrivi un momento di silenzio, e quando il film è finito ti accorgi che non è stato detto niente; allo spettatore non è stato detto niente su cui riflettere. Il silenzio ti fa mettere in discussione le cose. E’ un momento di condivisione, e di partecipazione.

(Elia Suleiman)

Dancer in the dark

Sapere di dover diventare ciechi dev’essere difficile da gestire, forse cerchi di fissare nella memoria il maggior numero possibile di immagini, di volti, di espressioni, per avere una possibilità in più di vedere, anche se solo nei ricordi. Cosa significa diventare ciechi lo racconta Bjork, che insegna cosa significa ballare nel buio, in Dancer in the dark di Lars Von Trier. Ci fa capire cosa comporta non vedere nulla mentre si lavora, mentre si parla, mentre si cammina, mentre si vorrebbe recitare in un musical. Senza pietismi, senza compassione, molto semplicemente e con quel pizzico di pazzia che segna anche la sua voce e il suo modo di cantare. Il musical che vorrebbe poter ancora recitare non è casuale. Si tratta di Tutti insieme appassionatamente, film musicale del 1965 tratto dalla commedia musicale The sound of music. Devo ammettere che il film lo so a memoria, e sentire Bjork che canta “Le cose che piacciono a me” (che in Tutti insieme appassionatamente la protagonista canta durante un temporale), mentre aspetta la condanna a morte, fa uno strano effetto. Come sia spesso stupido dire e suggerire di cercare un pensiero felice per non pensare al peggio, come sia tremendamente fiabesca questa ricerca (in fondo per volare Peter Pan aveva il suo pensiero felice, prima ancora della polvere magica). Eppure, quando è buio, buio soprattutto fuori, ma non dentro, ci sono musiche, parole, suoni, pensieri che salvano. Dancer in the dark riesce a farti rimanere senza fiato, riesce a farti arrabbiare, diventa difficile stare seduti, si vorrebbe poter cambiare il corso della storia, poter intervenire. Bello e poetico, ma attaccato con le unghie a sensazioni reali, a problemi della vita, alla cattiveria di molte persone, alla Storia, quella fatta – spesso – di decisioni incomprensibili.

Il matrimonio di Lorna

Il titolo originale è “Le silence de Lorna”. Il silenzio quindi e non il matrimonio al centro del film. Perché in fondo è vero, ruota tutto intorno ai matrimoni combinati, per garantirsi la cittadinanza in un paese straniero, per garantirla ad altri, perché diventa un modo per guadagnare soldi per costruirsi un futuro, anche se significa fare affari con chi i soldi li sporca. Però prima di tutto questo c’è il silenzio di Lorna, che accetta di sposarsi con un tossicodipendente per avere la cittadinanza belga, che accetta il modo più drastico per ottenere il divorzio, e cioè far uccidere lui. Lei che in silenzio mette via i soldi, che in silenzio sogna di aprire un bar. Fino al punto in cui lei stessa si spaventa di questa mancanza di reazioni, del suo silenzio davanti a tutte queste decisioni. E così parla. Corre. Rompe la catena di accordi. Rimarrà però da sola, in un silenzio obbligato, rotto solo dalla sua stessa voce che parla a un futuro che non c’è.
Ho visto Il matrimonio di Lorna di Jean-Pierre e Luc Dardenne a Genova, al cinema Corallo, una quarantina di persone sui circa 120 posti della sala, al primo spettacolo della domenica pomeriggio, in una Genova che si prepara al Salone Nautico, che inizia a coprirsi per ripararsi dal vento. Un cinema piccolo, che ospita il film in esclusiva per Genova, anche se una prima apparizione l’ha fatta la settimana scorsa al Sivori. Bello vedere tanta gente per un film così. Perché è un film che sai già ti lascerà un senso di fastidio e amaro, una di quelle storie che non lasciano molto spazio alla speranza, e che fanno riflettere perché sono qualcosa più della trama di un film. Sono lì intorno a noi, fuori dal cinema.

Dolls, ecco l’Amore

Amore. Ecco come si racconta l’amore senza cadere nella trappola del melenso. Ecco come se ne racconta anche l’aspetto più feroce, senza cadere nel sentimentalismo. Senza dialoghi melensi, senza scene di sesso, senza usare stereotipi. Ci sono “bambole”, marionette comandate dallo stregone Amore, in balia dell’altro, delle scelte della vita. I ragazzi incatenati scandiscono il cammino tra le altre storie, le incontrano e le sfiorano. Ho visto Dolls di Takeshi Kitano in lingua originale ma sottotitolato in francese, una lingua che chiama i due ragazzi  les mendiants enchainés. Se la traduzione “mendicante” è precisa e corretta dal giapponese che purtroppo non conosco, è una scelta che rispecchia il loro stato. Vagano mendicando la vita, il perdono, cercando la ragione perduta, cercando un ricordo che possa far riaccendere il sorriso, anch’esso perduto. Con quella corda rossa che trascina foglie secche, ma lascia ben radicati i fiori. E’ una corda che unisce perché è così l’amore o forse è il senso di colpo che si maschera da amore e unisce per forza?
Poi ci sono le altre storie. La donna che ha aspettato una vita, seduta su una panchina, il ritorno del suo giovane fidanzato. Lui torna, anziano, sedotto dal ricordo di lei, dopo anni che nemmeno più pensava a quel “ti aspetterò per sempre”. E ancora la cantante e il suo fan che diventa cieco apposta per lei. Non c’è un lieto fine in nessuno di questi amori. Non c’è speranza di vita insieme. Non c’è niente di duraturo, felice, spensierato. Ma non c’è in nessun momento l’intento di strappare lacrime.
E’ bello per questo. C’è l’amore raccontato, l’amore nei suoi momenti felici e nella disperazione, con parole che sono i colori dei fiori, i silenzi, i dettagli, gli occhi, persi nel ricordo o persi nell’altro.

La scena della panchina mi ha fatto pensare subito a Bad Guy di Kim Ki Duk. Il film del regista coreano è del 2001, Dolls è del 2002. Non so se Kitano si è ispirato a Kim Ki Duk, non so se c’è un richiamo volontario. Però quelle due panchine mi sono sembrate subito vicine. Un parco a fare da sfondo, lo sguardo di lei, più perso nell’amore e quello di lui, più duro. Aspettano. Aspettano l’amore, aspettano che succeda qualcosa per essere tolti di mezzo. Il golfino chiaro su un abito colorato, i capelli pettinati, sono due brave innamorate. Che aspettano la vita sedute su una panchina.

Racconti da Stoccolma

Racconti da Stoccolma - A. Nilsson

Ci sono diversi modi di raccontare le forme che può assumere la violenza nei confronti delle donne e l’abuso in generale. Racconti da Stoccolma la violenza la mostra senza nascondere nulla, senza lasciar immaginare. Fa vedere al punto che con la schiena spingi contro la sedia, perché vorresti sottrarti alle immagini. Il film di Anders Nilsson propone tre storie che poi si intrecciano senza mai sfiorarsi. Sono storie che raccontano di culture diverse, ma con abilità il regista non tralascia di affrontare il tema della violenza domestica, senza rifarsi a religioni diverse, usanze lontane. E’ l’abuso quotidiano di un marito nei confronti della moglie, le botte, l’umiliazione e quell’atteggiamento malato che porta a sfruttare l’amore per giustificare la propria violenza. Con questa storia lo spettatore non può giustificare ciò che vede dicendosi “in fondo da noi questo non può capitare”.

Ci sono alcuni momenti del film particolarmente angoscianti. La scena in cui i familiari di Nina spingono la ragazza a buttarsi tra le auto per togliersi la vita credo sia uno dei punti più difficili da digerire. Non solo per la violenza delle immagini, ma per ciò che esse si portano dietro. Perché è difficile accettare che la propria famiglia preferisca vederti morta piuttosto che accettare un disonore, che poi è la semplice richiesta di normalità di una ragazza. Una normalità che chiede di andare oltre la cultura della famiglia che impone la verginità alle ragazze, che le obbliga a non avere contatti con il mondo esterno e che invece concede tutto agli uomini. Ancora più inaccettabile è che le “matrone” della famiglia non solo accettino ma persino organizzino tutto questo.
Colpisce anche l’uso dei mezzi di comunicazione nel film. Il cellulare soprattutto è spesso i primo piano e diventa strumento per mostrare la violenza, diventa salvezza e libertà negata.
Tra le file di sedie di un cinema all’aperto, tra la gente in silenzio serpeggiava solo la parola “angosciante”. E l’applauso dopo i titoli di coda. Singolare e inusuale per un cinema, anche se all’aperto. Un applauso liberatorio, un gesto di condivisione, per dire che è servito vedere, che è stato giusto far vedere.

Tropa de elite

Tropa de eliteHa il viso duro il capitano Nascimento, un filo di cinismo e un equilibrio che si rompe per la troppa violenza vista e provocata, per la paura di non esserci più, soprattutto davanti a un figlio che sta per nascere. Tropa de elite è duro, violento nell’essere una finestra su una realtà che non lascia molte speranze. Non c’è solo droga, non ci sono solo ragazzini uccisi, c’è anche la corruzione, il denaro, il silenzio pagato. E queste truppe armate, la divisa nera e un teschio come stemma: sono gli squadroni della morte, perché quando viene chiesto il loro intervento l’esito è scontato. Tropa de elite (vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2007) mostra la realtà delle favelas brasiliane, la gerarchia del potere, la difficoltà dei giovani a capire e ad accettare. Mostra la violenza da entramIl capitano Nascimentobe le parti. Colpisce l’ “occasione” raccontata nel film. Papa Giovanni Paolo II per la visita in Brasile del 1997 doveva alloggiare vicino a una delle favelas più difficili e per non creare problemi di “sicurezza” viene richiesto l’intervento del Bope, i soldati del corpo speciale, per “fare pulizia”. La musica scandisce la violenza. Il sangue, i colpi, le armi, le minacce lasciano che il film sia nervoso e crudo, un documentario narrato. Ma tremendamente reale. Perché ad essere tremenda è semplicemente la realtà. Così come era stato per Bus 174, sempre del regista brasiliano José Padilha: più documentario e meno film, dove la trama era la successione di fatti ripresi in diretta, il sequestro di un auotobus e il suo tragico epilogo.
La violenza però è anche all’interno del corpo speciale. L’addestramento per selezionare il successore del capitano Nascimento lascia senza fiato. E’ crudele e un po’ ricorda alcuni momenti di Full Metal Jacket di Kubrick. Quella forma di violenza che non è solo fisica, ma vuole anche derisione, umiliazione. Serve a formare il carattere e a preparare alla guerra mangiare il proprio vomito? Non lo so, ma vederlo sullo schermo fa uscire dal cinema in silenzio.

La giusta distanza

La giusta distanza - 2007Esiste una giusta distanza? Tra i personaggi del film di Carlo Mazzacurati si intrecciano riflessioni sul posto che ciascuno deve avere rispetto agli altri, in un paesino dove tutti si conoscono e arriva una giovane “esterna” ad attirare l’attenzione. Ci sono sentimenti e c’è il giallo del mistero. Filosofia e amore, poi pregiudizi, giudizi, sempre chiedendosi chi ha infranto la giusta distanza.
Il vecchio giornalista suggerisce al giovane cronista di imparare a stare nel punto giusto: non troppo lontano, ma nemmeno troppo vicino perché si corre il rischio di rimanere impantanati nei sentimenti. Non bisogna provare emozioni dunque, o almeno non farle prevalere. Eppure credo non si possa prescindere da quello che si prova, bisogna saperlo trattenere e usarlo nelle parole, perché chi scrive deve trasmettere emozioni, impressioni, colori, suoni, brividi a chi non può assistere direttamente a un fatto. Non ci sono solo dati, non ci sono solo nomi, dietro rimangono le persone. Ed è questo credo uno dei messaggi del film di Carlo Mazzacurati.
Ma non c’è solo la giusta distanza nel lavoro, c’è anche quella nei rapporti con le persone. Impossibile non tener presente la prossemica, le distanza tra le persone nel film segnano sospetti e svolte. Quando il confine dello spazio personale viene superato diventa amore, passione o fastidio, persino morte. La giusta distanza - 2007Non c’è giusta distanza poi proprio in cui giudica, perché davanti a un imputato straniero prevale il pregiudizio rispetto alla verità o almeno all’indagine per ottenerla.
Mi piace l’immagine della giovane esterna che irrompe in paese avvolta in un cappotto rosso. Mara si catapulta per lavoro in un paesino avvolto nella nebbia, vive da sola, beve tazze di tè, scrive seduta a un tavolo che si affaccia sul verde. Si innamora di Hassan, meccanico tunisino scappato dal suo paese da un matrimonio combinato. Lei vive, non pensa o pensa troppo, è pronta a partire anche se ha trovato l’amore. Sorride agli altri, perché sorride a se stessa.

Lo scafandro e la farfalla

Lo scafandro e la farfalla - 2007All’improvviso può cambiare tutto. E diventare molto più difficile. Lo scafandro e la farfalla (regia di Julian Schnabel) è tratto dal libro di Jean-Dominique Bauby, caporedattore di Elle che nel 1995 è rimasto paralizzato dalla testa ai piedi a causa di un ictus. Dopo tre settimane di coma, al suo risveglio poteva muovere solo la palpebra dell’occhio sinistro. Quell’unico movimento è diventato il suo modo per comunicare: un battito per dire sì, due per dire no. Per aiutarlo a comporre le parole chi gli stava accanto leggeva ad alta voce le lettere dell’alfabeto in ordine di frequenzza d’uso, ed è in questo modo che Jean-Dominique Bauby è riuscito a scrivere il libro sulla sua storia, uscito nel 1997. Lui morì pochi giorni dopo, il 9 marzo. La sua immagine è difficile da accettare, il suo desiderio di morire sembra condivisibile. Eppure nella possibilità di tornare in qualche modo a scrivere, e nella libertà di pensiero unico pezzo di sè rimasto in assoluLo scafandro e la farfalla - 2007to movimento, sta la forza che lo ha fatto andare avanti. Lo scafandro e la farfalla fa pensare che quello che ci sembrava una certezza, quello che era una banalità, l’abitudine quotidiana, può venir meno senza possibilità di rassegnarsi a questa idea. La sua immagine è straziante, lo scafandro in cui si sente rinchiuso lo soffoca nel corpo, ma il suo “io” farfalla riesce a volare, grazie a chi gli sta accanto. Il film è quasi sempre visto con il suo occhio, mostra stralci di soffitto se è questo quello che vede, è appannato se piange, e le facce si deformano se si avvicinano troppo. Poi c’è la sua voce, la sua risata, i commenti alle parole di chi sta accanto al suo letto d’ospedale. Quella voce la sentiamo solo noi che guardiamo, per tutti gli altri c’è solo silenzio.

Quando l’imperatore diventa divino

Qualche dettaglio per un film, Il divo di Paolo Sorrentino, che colpisce per quello che racconta, ma anche per il modo, per i colori, gli attori, la musica.

La sequenza di morti commissionate e assurde, quelle mani che si intrecciano, che restano appoggiate alle ginocchie, che giocano con la fede. La passeggiata notturna verso la chiesa per confessarsi, con la scorta armata che lo affianca, lentamente a passo d’uomo. La “confessione” alla moglie Livia, seduto da solo in una stanza, un monologo urlato, poi sussurrato, questa volta non controllato. “I migliori anni della nostra vita” di Renato Zero, colonna sonora dell’unico momento di affetto tra Giulio Andreotti e sua moglie, la mano di lui appoggiata su quella di lei che per prima la tende verso suo marito. Nient’altro. Lei si commuove, a fatica trattiene le lacrime. Lo guarda per capire cosa prova, le guance non sono rigate, capisce che è Il Divo - Sorrentinovivo perché il collo sopra la camicia pulsa. Poi le inquadrature, alcune attraverso i suoi occhiali quadrati, in un movimento continuo per riprendere da più posizioni. E poi il Potere. L’intreccio di mani e favori, il “caso” e le coincidenze. I morti, quanti morti. Le famiglie, i pentiti, i mafiosi che accusano il divo. Il bacio con Totò Riina. I due si guardano, seduti. Poi Andreotti si alza per primo e si vanno incontro. Colpisce il modo di dire e spiegare i fatti: quello skateboard che corre nel corridoio tra i piedi dei politici. Visto qualche scena prima con la dinamite attaccata per uddidere Falcone. Quelle ruote su quel pavimento, per dire siete stati anche voi.

Non bisogna confidarsi nemmeno con se stessi… perché non si devono lasciare tracce.

Little Miss Sunshine

Little Miss Sunshine - 2006PAVIA Non c’è solo il concorso di bellezza, che mostra bambine-mostri di sette anni vestite da Barbie ma tremendamente reali, e non c’è solo il viaggio per raggiungere Redondo Beach, dove si svolge la finale per Little Miss Sunshine. C’è una famiglia americana, allargata, complicata, che cerca di sembrare “vincente”. Difficile crederlo. Richard, il padre, organizza corsi sui 9 step per raggiungere il successo, che non hanno successo. Sheryl, la madre, sembra sopraffatta dalla Casa, ma non sa come aiutare i figli. Dwayne, 15 anni, ha smesso di parlare e usa un block notes per comunicare, ma è il più sveglio di tutti. Olive è la piccola miss che delle altre bambine non ha nulla, ha gli occhiali grossi, il pancino gonfio, ma ci crede e crede soprattutto nel suo numero preparato con il nonno Edwin. C’è anche lo zio Frank, critico di Proust, gay, che ha appena tentato il suicidio. Questo quadro di vita reale viene fuori durante il viaggio verso la California, nelle disavventure con il pullmino, nei discorsi di sostegno e consolazione che a turno coinvolgono i componenti della famiglia. Durante Little Miss Sunshine (2006, di Jonathan Dayton e Valerie Faris) capita spesso di ridere. Ma si ride per dissonanza con quello che siamo abituati a vedere. Si ride perché è aspro e amaro vedere questa famiglia, ma si ride proprio perché alla fine la lezione l’hanno imparata tutti, e si torna a casa più famiglia di prima.


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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