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Autocensura e libertà

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“Lo spazio della nostra libertà significa prenderla e viverla. Siamo in una società che si sente assalita, in guerra. Accetta di essere sotto controllo e di rinunciare a delle libertà fondamentali. Lo accetta. In una società così, il nostro nemico peggiore, per noi che facciamo questo mestiere e raccontiamo storie, è l’autocensura. Che ha un corrispettivo nelle direzioni dei giornali, nelle produzioni cinematografiche, nelle distribuzioni, ti arrivano messaggi chiari, per cui ti dicono “a me questo non interessa, è inutile che me lo porti”. Allora tu scrivi una prima volta l’articolo e ti dicono no, e non lo pubblicano. Poi lo scrivi una seconda volta, e alla terza non lo scrivi più, non glielo porti proprio. Questa cosa si chiama autocensura. Smetti di combattere per le cose in cui credi e quello che fa veramente la differenza tra una democrazia e una cosa che non è democrazia è questo. Non è il fatto che siano scritte delle regole, ma il fatto che i cittadini che fanno i giornalisti, i registi o i narratori non rinuncino. Se rinunciano allora giochiamo un’altra partita. Lo dobbiamo sapere”.

Sono parole di Daniele Vicari, regista del film Diaz. Insieme al giornalista Calo Bonini e al regista di Acab Stafano Sollima era al Festival del giornalismo di Perugia. Penso al coraggio che serve per raccontare e a quanto sia più facile lasciare tutto in un cassetto. Penso a quanto sia importante aprirli questi cassetti, e scrivere, parlare, filmare, raccontare. Fregandosene dei no. Perché poi un sì arriva sempre. Questa, appunto, è un’altra partita.

Per vedere l’intervista, il link al sito del festival.

Normandia-Bretagna/2. Facce

Cammini, ti guardi attorno. Quello che vedi dipende dalla concentrazione, dai pensieri del momento. Mi piace guardare le facce, i volti della gente che come  me cammina, si guarda attorno. A Giverny una coppia di orientali è seduta su una panchina davanti alla casa di Monet, immersa nel verde e nei colori dei suoi fiori. Rubo uno scatto, la foto è mossa, ma mentre sono lì a guardare quella donna ben vestita e l’uomo in grigio penso alla panchina di Dolls (Takeshi Kitano) lui e lei che si aspettano una vita.

All’estero la sensazione è che sia tutto più semplice, meno nervoso. In spiaggia ad Etretat un bimbo si avvicina all’acqua vestito, con le scarpette da ginnastica ai piedi. Prima scappa, poi fa un passo, poi i piedi finiscono immersi nel mare. I genitori sorridono, niente strilli, reazione più italiana. Forse parlo per luoghi comuni, a capofitto in stereotipi da due soldi. Ma penso alle facce. Nell’anziano che chiede l’elemosina a Dinan, nell’uomo dalla barba bianca che tiene sulla mano un gabbiano a Saint Malo, nel ragazzo che parla da solo seduto su un muretto di Concarneau con piume di uccello appuntate a raggera sui capelli, nel sorriso di Mireille mentre prepara la colazione all’hotel San Pedro, nella fatica di Jean Pierre e Jacqueline che hanno costruito con le loro mani lo splendido giardino e la casetta ad Alençon. In tutte queste facce vedo la capacità di prendere un respiro e affrontare le giornate, la vita, senza sprecare parole inutili. Forse è solo la malinconia da ritorno.

Ben tornati in Italia

Scena 1

Lei si alza per prima, apre lo sportello che sopra le teste dei passeggeri raccoglie i bagagli a mano. Inizia a tirare fuori una borsa, poi due, poi un sacchetto bianco con un grosso peluche di Hello Kitty. Lui è nel corridoio tra le poltrone dell’aereo, volo Vienna-Milano Malpensa. Lei ha un culone, corpo robusto fasciato da un abito nero a fiori, i capelli biondissimi corti. Lui ha un panzone, i bottoni della camicia tesi. “Prima non te l’ho dato, ma se fai scene con le valigie ti tiro uno schiaffo”, lui usa un tono minaccioso. Lei borbotta. Credo sia russa, forse ucraina, anzi più ucraina che russa. Sono a un passo dal litigare, poi lui le mette una mano sul culo, poi le solleva leggermente il vestito e la mano gliela infila sotto. Qualche istante di quella che è la firma della tregua poi si può continuare a tirar fuori bagagli e sacchetti.

Scena 2

“Giuseeeeeppe”. Urla lei nel corridoio volante mentre si cammina verso l’aeroporto. “Sono troppo pesanti, io le lascio qui”. Lui, Giuseppe, poco più avanti elenca una serie di santi, non dimentica la madonna e poi torna indietro.

Ben tornati in Italia.

Se i giocattoli non vanno bene per i figli unici

Scatole colorate con piccoli esperimenti per imparare il mondo, giochi dal sapore antico, tecnologia in miniatura, gli animali della fattoria e quelli della savana. Giro tra gli scaffali di un negozio di gioccatoli particolare, la Città del sole. Una mamma e il suo bambino stanno scegliendo alcuni giochi da regalare a dei compagni di classe. Immagino l’invito ad una festa di compleanno e la voglia di comprare qualcosa che non sia il solito giocattolo usa e getta. Prendono le scatole, le girano e leggono le regole. Una scatola rossa deve avere spiegazioni troppo misteriose, così chiedono aiuto al personale della Città del sole. Il ragazzo legge con attenzione e spiega che è una specie di gioco dell’oca, forse un po’ più avventuroso. “Be’ è carino”, dice la mamma. Ma il bimbo la tira per la giacca, deve dirle una cosa, ma non può farsi sentire dal negoziante. Così il naso all’insu verso il viso della sua mamma le sussurra che non si può. “Quel gioco non va bene, perché lui è figlio unico, come fa a giocarci”? La mamma e il negoziante restano qualche secondo in silenzio. Poi decidono di dar retta al consiglio del piccolo. La mamma prova a lanciare un’obiezione (“potrebbe giocare con i suoi genitori”, dice con un leggero disappunto per non essere stata presa in considerazione come categoria di possibili giocatori). Ma non serve, impossibile ribattere alle parole di quel bambino.

Ho conosciuto Melina Riccio

Ho conosciuto Melina. Piazza De Ferrari, Genova. L’ha vista prima mio fratello, seduta sui gradini del teatro Carlo Felice. I capelli grigi cortissimi, fiori a decorarle la testa, un abito giallo, un mantello scuro, con cucito il suo nome chiuso in un cuore: Melina Riccio. Genova è piena dei suoi messaggi. Li trovi dipinti di rosa sul cemento della sopraelevata, pennarello nero sui cartelli della stazione. A Pasqua gli alberelli di alloro del teatro erano coperti dalle sue tele. Tulle chiaro cucito su sacchetti della spazzatura, cuori dorati sul cartoncino rosso. Mi sono avvicinata, le ho chiesto di spiegarmi. Mi ha messo tra le mani un cuore di carta e ha iniziato il suo racconto. Parla in rima Melina. Non puoi trovare senso in tutto quello che dice, ma resti incantato. Il “domani” significa fare le cose “con le mani”. Non basta imparare una ricetta per sapere fare una torta. La dimentichi subito, anche se leggi con attenzione ogni passaggio. Devi provare a farla la torta, solo così ti rimarrà impressa la ricetta. Melina dice che passiamo troppo tempo concentrati sulla carta, sulle parole. Mentre mi parla ritaglia un pezzo di carta bianca a forma di stella. “E’ il nostro corpo”, mi dice. Piega su se stesse le gambe, poi le braccia e la testa. E’ quello che ci succede, ci chiudiamo in noi stessi, troppo concentrati a imparare nozioni. Non siamo più capaci di guardare il sole, di svegliarci al mattino e apprezzare quello che ci circonda. Secondo Melina dobbiamo essere creativi, rispettare l’ambiente, non creare rifiuti, non sprecare carta, parlare in modo corretto. Non farci cancellare dalla croce della chiesa e delle istuzioni, diventare autosufficienti, capaci di cavarcela da soli, senza dimenticarci degli altri. Avrei voluto registrare ogni singola parola, non riesco a ricordare nemmeno una rima. Faceva la sarta Melina, cucire era il suo lavoro. E’ nata ad Ariano Irpino, 23mila abitanti, provincia di Avellino. Sposata con tre figli. Ha vissuto a Milano, Varese, Genova. Un giorno, mi racconta, ha sentito che doveva fare qualcosa, chiamata da dio a diffondere un messaggio di amore, di pace. Ha lasciato tutto. Sapeva che i suoi figli avevano bisogno di lei. “Ma lasciandoli potevo salvare il futuro di tanti giovani”. Ti chiede cos’è l’anima. Cos’è l’anima? Aria, essenza.

Arrivederci, buona domenica

Non ho molto nel carrello. Gli ingredienti per fare una torta salata, il cous cous, due lattine di coca cola, una caffettiera piccola, comprata per la casa nuova. E l’ultimo numero di Dyland Dog. La signora davanti a me mi chiede se voglio passare avanti. No, non serve, non ho fretta. E’ vero, è domenica, mi dice, e dobbiamo tutti prenderci del tempo, stare tranquilli. Sorrido. Ha ragione. Prima di uscire di casa ho finito di vedere l’intervista a Vasco Rossi, alla Storia siamo noi. Non un mio mito, Vasco Rossi. Però mi sono trovata a commuovermi, forse per questi eccessi di sensibilità che adesso più di prima fatico a controllare. “Se rispetto la vita? Certo, perbacco… ma solo se rispetta me”. Ecco, penso a queste parole, ripetute al telefono tra gli scaffali del supermercato a una voce che mi scalda, quando la signora mi riporta alla realtà della coda alla cassa. “Non sei  di qui, vero?”. In effetti no, lei Genova la ricorda solo perché ci prendeva il traghetto per la Sardegna. Anche lei non è pavese. Ma a Pavia vive dal 1954. Da 4-5 anni non torna a casa, ma quest’anno sì, partirà da Genova, per raggiungere le montagne tra Sassari e Nuoro. Mi mostra due foto nel portafoglio. La prima è di sua madre, una foto in bianco nero, con il tipico vestito sardo – mi spiega – un foulard a coprire i capelli. E’ morta a 28 anni, lasciando quattro figli. Era il 1941. La seconda foto è di una sua nipote. Anche lei morta giovanissima. Mi dice che non importa dove viviamo, basta stare bene, anche se il posto che abbiamo lasciato sembra a tutti gli altri migliore. Sistemo le mie cose sul rullo. Lei paga. Io preparo la tessera per la raccolta punti. Sistemo gli occhiali appesi alla maglietta. Arrivederci, buona domenica.

Incrociando la Blat Family Tribu

Scendo dal treno. Ha piovuto, ma non piove più. Quando arrivo a Genova e non trovo subito il sole mi infastidisco, come se mi portassi dietro un filo di grigiore, contagioso. Sono quasi le cinque del pomeriggio, attraverso la stazione, vado verso la metropolitana. Alzo lo sguardo e vedo che tra le nuvole ancora scure si apre uno spiraglio. Sorrido. Mentre scendo i gradini, tenendo stretto in mano il biglietto del metro, vedo questo furgone (vedi foto) stracarico e sporco. Ha tende scure ai finestrini, è una specie di camper. Dentro non c’è nessuno, dietro una piccola Vespa rosa. Sorrido. Vedo una scritta: Blat Family Tribu. Scatto una foto e passo oltre. Però sono curiosa e trovo soddisfazione grazie a Google. Scopro che BLAT sta per Brice, Lou, Aude e Teo, rispettivamente papà, bimba di 1 anno, mamma e bimbo di 8 anni. Sono in viaggio, stanno attraversando l’Europa diretti in Mongolia, tappa obbligata del loro percorso la Russia. Sono partiti il 10 marzo 2010 e hanno fissato la data del ritorno ad Antibes: 31 gennaio 2011. Manca poco insomma. Sul loro sito tengono un diario di viaggio (http://www.wix.com/divinoria/blat-family-tribu), spiegano come fanno studiare il piccolo Teo per non fargli perdere la scuola e raccolgono i commenti di chi li incontra e li incrocia. Da dieci mesi la loro casa è un furgone, la Francia sempre più distante, e ora quando al rientro manca davvero poco Genova segna una delle ultime tappe.

Ognuno è artefice del suo destino

Pag 262 – Tropico del Cancro. Una nota segnata al volo sul cellulare. Riprendo la pagina.

“Se a volte incontriamo pagine esplosive, pagine che feriscono e bruciano, che strappano gemiti e lacrime e bestemmie, sappiate che son pagine di un uomo alle corde, un uomo a cui non resta altra difesa che le parole e le parole sono sempre più forti della menzogna, peso schiacciante del mondo, più forte di tutte le ruote e i cavalletti che i vili inventano per infrangere il miracolo della personalità. Se un uomo mai osasse tradurre tutto quel che ha nel cuore, mettere giù quella che è la sua vera esperienza, quel che è veramente verità, io credo allora che il mondo andrebbe infranto, che si sfascerebbe in frantumi, e né dio, né accidente, né volontà potrebbe mai radunare i pezzi, gli atomi, gli elementi indistruttibili che componevano il mondo”.

(Henry Miller, Tropico del Cancro)

Ho segnato questo paragrafo mentre prendevo il sole e leggevo. Un lettino in mezzo a tanti, in un fine maggio dal sapore già estivo, ma ancora lento nei ritmi. In un angolo di Liguria, a due facce, equamente distribuite tra i giorni della settimana. Tropico del Cancro è Parigi. Anche. Leggevo. E vedevo. Famiglie, persone, coppie, bambini, uomini soli, donne sole. Qualche stereotipo. Volti che se osassero tradurre tutto quello che hanno nel cuore sfascerebbero il mondo.

Immagini. 

Mamma, papà, due figlie. Genitori piuttosto giovani, meno di quaranta. Lui ascolta la radio, con le cuffie. Lei fa ripassare i verbi alla più grande per la verifica di italiano. Non ne ha voglia: né la bambina di ripetere indicativi e congiuntivi alle tre di un pomeriggio di vacanza, né la madre. “Io le ho già studiate ‘ste cose, lei fa così sempre, non ha voglia di prendere i libri in mano, ma io ho altre cose da fare, cose più importanti”. Parla di sua figlia con il marito (che non dice una parola, ma ha tolto le cuffie) mentre questa ragazzina è lì a pochi centimetri, parlano di lei come se non esistesse. La madre-moglie sottolinea – senza mai dirlo direttamente – che lui non può sapere come si comporta la figlia durante tutta la settimana, la vede solo in questi due giorni. Non dice niente questo padre a sua figlia, non dice niente questo marito alla moglie. Entrambi poi si dedicano alla piccolina. La grande resta a guardare nel vuoto, un libro con parole evidenziate inverde sulle gambe.

C’è una coppia, lei superpalestrata, la pancia piatta piatta, le gambe muscolose. Tutta “amore-tesoro”, non toglie la medaglietta Tiffany neanche sotto il sole delle tredici, e mentre la osservo penso “oddio adesso si brucia la pelle e le resta una sagoma tonda tra le costole”. Parlano parlano parlano. Il niente. 

Nonni paterni, con figlio e nipotina. A mezzogiorno o poco più ci si veste per andare a casa a mangiare, i nonni fremono. Se la bambina sta troppo in acqua, se sta troppo al sole, se non si vuole vestire, se vuole il gelato. Ma il papà-tornato-figlio non dice una parola, non un “lasciateci in pace”. Il secondo niente.

Cade una maglietta, era appoggiata alla sdraio. Lui: “Se è caduta vuol dire che l’avevi messa male”. Lei (mentre cambia una bimba ancora con il pannolone): “Dai non si è sporcata”. Lui: “Ma cosa importa, è caduta, devi fare attenzione cazzo”. Lui urla, lei lascia che lui urli. Si può ancora scappare?

Ma tra coppie di fighetti che sembrano spezzarsi sotto il peso delle parole che dicono e non dicono, ci sono anche spiragli di normalità. Una famiglia un po’ panciuta gioca sotto l’ombrellone. Sembrano aver deciso per la spiaggia all’ultimo momento, in jeans, nessuna traccia del costume. Ma chissenefrega basta avere due formine per far costruire mondi di pietre ai due bambini. “Ognuno è artefice del suo destino”. Un tatuaggio su un braccio abbronzato. Ha voglia di scappare questo ragazzo muscoloso, i capelli lunghi, la pelle abbronzata. Vorrebbe fare il pescatore in Polinesia. Non perché la conosce, non perché l’ha vista. E’ un’idea, un’immagine, la più lontana possibile. “Cosa ti trattiene? Non lo capisco”. Glielo chiede un milanese sulla cinquantina. Ha lasciato la moglie e casa e sta un paio di giorni al mare. “Da solo, ogni tanto ci vuole”. Non sa cosa lo trattiene. Il Pescatore ha gli anni – pochi – per poter decidere di andare, non è sposato-fidanzato-legato. Non ha un lavoro con obblighi superiori. “Penso sia per gli affetti”. I fratelli, i nipotini che lo chiamano zio. Ma a guardare il mare e sognare che male c’è?

“Ma tu sei contenta della vita?”. Una domanda importante. Esce dalla bocca di un signore di 75 anni, tiene per mano la moglie, forse un poco più giovane. Lo vuole capire, spiega, perché un po’ si rimpiange gli anni della giovinezza. E allora vuole sapere se si riesce ad essere felici così con quello che viene, o se ci  si deve dare un po’ da fare… “Bisogna fare le scelte giuste”. Una risposta importante.

Da Israele alla Russia, passando per Mortara

Andata.

“C’è una signora col passeggino che deve scendere, aspetti!” Il treno mentro lo dice inizia a muoversi. “La signora ormai scenderà a Genova”. Dialogo ragazza-capotreno.
Nel mio scompartimento solo io alzo la testa. Davanti a me un ragazzo che sembra uscito da un telefilm americano ascolta l’ipod. Non sente. Un signore sulla sessantina non dice niente. E poi c’è una famiglia israeliana. Etichetta sulla valigia. Il figlio grande, sulla ventina, mi lascia il posto (problemi di prenotazioni). Jeans, occhiali da sole sulla testa, capelli due millimetri, faccia gentile. Ha le scarpe da ginnastica nuove: bianco pulito e lacci verde chiaro. La figlia più piccola (si chiama Slil, “come il suono di un campanello” dicono, anzi mimano) ha 12 anni. La mamma che sa pochissime parole di italiano disegna i due numeri sul palmo della mano. Non va a scuola perché ci sono le vacanze. E’ bionda, piena. Ha il rimmel blu. Il marito ha i capelli ricciolini lasciati un po’ lunghi, tiene gli occhiali da sole, la maglietta gialla è attillata. Prima di scendere metterà un cappotto blu, fuori stagione, sembra quasi non essere suo. La ragazzina ha occhi furbi e svegli, una ciocca di capelli biondi su riccioli scuri. Tiene stretto un asino di peluche. Guardano fuori dal finestrino avanzi di neve. “Da voi nevica?” chiede il sessantenne. “Solo per un mese”, risponde il capofamiglia in inglese. L’altro capisce “solo un giorno”. Si parlano in lingue diverse. Mi offrono dei wafer al cioccolato. Sono affascinati dal panorama. Quello che vedono dal finestrino è una conca di verde intorno a Ronco Scrivia. Eppure ne sono incantati. Nello scompartimento accanto al mio non hanno la mia stessa fortuna (mentre sento una signora – che poi scoprirò dopo essere di Mortara – che chiede “com’è finita poi roma-inter?” penso agli scompartimenti come a delle stanze. Sì, penso proprio “che voce odiosa ha la signora nell’altra stanza”). Lì viaggia una coppia di Voghera che sta andando a Genova, hanno la barchètta a Sestri. La mortarese li martella. Occhiali scuri, grossi. Over 60, forse di più, ma tenuta bene. Racconta di tutto. E’ la sola a fumare in famiglia, un pacchetto al giorno (“l’altra sera ho fatto finta di mettere a posto le cose in cucina e sono andata a fumare di nascosto sul balcone”). Usa il treno abbastanza spesso. “Ma che paura ho avuto a Vigevano. Aspettavo il treno delle setteeunquarto quindi neanche tanto tardi e continuava ad avvicinarsi gente hai-da-accendere, hai-50-centesimi. Nemmeno a Porta Genova a Milano è così…”).

Ritorno.

Leggo Salomov. Si siedono due musicisti. Uno grosso, imponente, scenderà poi a Pavia. L’altro ha un accento straniero, ma parla un italiano perfetto, solo ogni tanto prende tempo per cercare la parola giusta. Camicia bianca, completo scuro. Scenderà a Milano. Ha lavorato alla Scala, o forse ci lavora ancora non riesco a capirlo. Si dice soddisfatto perché ha suonato quasi con tutti i direttori d’orchestra. Li elenca. Un peccato non conoscere e non riconoscere nemmeno un nome, ora saprei dire chi è uno stronzo, quale invece è bravissimo ma tratta male la gente, e chi a volte se ne frega e anche se qualcuno sbaglia fa finta di niente. A Tortona (il 1538 da Genova non ferma a Voghera) sale una famiglia. Sono russi. Mamma (piccolina, capelli corti scuri, occhialini), papà (il maglione a collo alto infilato nei pantaloni, la giacca lunga, il cappello di pelle nera, baffi biondi quasi arancioni), figlia (piumino rosa, capelli chiari). Lui curiosa sulla guida (vedo una foto di piazza De Ferrari). Sono stati all’outlet di Serravalle. Hanno diversi pacchi, hanno comprato le scarpe da Ferragamo. Scenderanno a Milano. Cosa racconteranno dell’Italia?

Je t’aime… C’est trop

Il controllore apre la porta dello scompartimento. “Buongiorno biglietti”. Un rito. A cui ci sottoponiamo tutti. Lui però dorme. Il controllore gli tocca un ginocchio. La testa cade pesante, come attratta dalla terra. “Il biglietto”, chiede il controllore. Lui apre gli occhi, sono bianchi sulla pelle nera. Le cuffie alle orecchie, lo guarda, come se non sapesse perché lo hanno svegliato. “Le billet”? “Si”. “Cosa succede se non ce l’ho”? “Non farmi perdere tempo, dai”. Allora tira fuori dalla tasca un biglietto piegato, seccato. Ma è un atteggiamento. Lo guarda. “E’ quello”? Gli chiede il capotreno. Lui non dice niente, glielo passa. “Sì, Genova”. Se lo riprende, lo mette in tasca. Io non ho staccato gli occhi dal mio libro. Ma so che ora mi sta guardando. Ha un anello grosso, d’argento credo, piatto. Le mani rovinate, ruvide. La pelle scura scura e il palmo della mano chiaro. “Il biglietto, il biglietto, tu hai già pagato il biglietto?”. Ripete queste parole come fossero parte di una filastrocca, e la recita guardando me. Io sorrido, e torno a leggere. Non sorrido per compiacere, né per circostanza. E’ un sorriso sincero, perché lui avrà pensato qualcosa del tipo “erano tutti sicuri che io fossi senza biglietto”. E invece no. Sorrido ma ho il mio libro a mantenere il distacco.

Carrozza 9, in testa al treno. Una signora si alza, rincorre il carrello-bar, torna con delle patatine, una bottiglietta d’acqua e un caffè. “Dovrei dimagrire, ma non ho fatto colazione”. Lo dice ad alta voce e guarda la nonna del bambino che mi sta accanto. Lui gioca senza sosta con un videogioco, fa correre veloce la sua macchinina. La nonna è rispettosamente grossa. “Cosa dovrei fare io? Buttarmi giù dal treno”? Giusta osservazione. Ma la signora-delle-patatine a quel punto ha trovato il modo per raccontarsi. Spiega di aver perso 30 chili in 5 mesi, con una dieta fai-da-te, dice di essere arrivata all’anoressia, di esserne uscita grazie ai figli che a un certo punto hanno detto basta e hanno iniziato a portarla nei ristoranti più buoni, per farla mangiare. “Mangiavo una mela e piangevo”, dice. Ha i capelli ricci e biondi, ma tinti. Un maglione con il collo alto, jeans e stivali. Ora ha ripreso 10 chili, ma comunque ne vorrebbe perdere almeno 5. Pancia e viso, spiega, non è che è mai riuscita a farli sembrare meno grossi.  Erano più pelle senza forma, a un certo punto. Ora. Ora sembra una donna normale, le darei 50 anni. E infatti poco dopo parla della festa per il suo compleanno, ne fa 49. Ho sbagliato di poco. Racconta ancora un po’ la sua storia alle due donne (madre e figlia) e quindi nonna e madre di questo bambino con gli occhiali e la maglietta a righe, che sembra immerso nel suo mondo. Poi torna il silenzio.

Genova si avvicina. La galleria. Sono nel corridoio, continuo a leggere, vorrei arrivare alla fine del capitolo. Non mi va di aspettare guardando fuori dal finestrino dove c’è solo nero. Così leggo.

“Tu ne peux pas passer”, non puoi passare e fa cenno a una grossa valigia su cui ha appoggiato anche il suo borsone. E’ lo stesso ragazzo di prima. Ecco, a lui non so dare un’età. Potrebbe avere trent’anni, come di meno. Ha una giacca pesante, forse troppo grande, jeans scuri. So che non devo dare troppa confidenza, non per paura, ma perché ha un modo di guardare che mette a disagio. “ça ne fait rien”. Comunque gli rispondo. “Alors tu comprends le français”. “Un petit peu”. Torno a leggere. Allunga una mano e tocca la mia mano sinistra, quella che regge il libro. Come poco prima il controllore aveva toccato il suo ginocchio, per svegliarlo dal sonno, così mi ha svegliata dal mio libro. “Je t’aime”, mi ha detto. “C’est trop”, gli ho risposto io, è esagerato. Insomma, non si possono sprecare le parole in questo modo, penso. Lui sorride. “Alors tu ne croix pas au coup de foudre…”. E’ deluso. No. Sempre in francese gli rispondo che non credo al colpo di fulmine. “Tu es libre de croire ce que tu veux”. Sì, credo anch’io di essere libera di credere a quello che voglio.

L’Italia in uno scompartimento

Domenica, 20 dicembre. Pavia-Genova. Al mattino non ricordo nemmeno il ritardo del mio treno, ne ho preso uno di qualche ora prima, arrivato finalmente a destinazione. E il ritorno… Prendo il treno delle 18.19 da Genova Principe. In orario. Però poi si ferma poco dopo Arquata Scrivia. “C’è un guasto alla linea, non sappiamo dire fra quanto il treno potrà ripartire”. La voce del capotreno – donna – getta nel panico una signora di Brescia, in corridoio, con il suo cane al guinzaglio. Si affaccia allo scompartimento: “Giuro che non prenderò mai più un treno in vita mia”. Avrà una cinquantina d’anni, forse qualcosina di meno. Magra, curata, vestiti stile leopardato. Ci racconta la sua disavventura tra Brescia e La Spezia, i ritardi, i treni annullati, i pullman sostitutivi, l’ultimo tratto a piedi. E’ eccessiva, direi esuberante. Le dà corda un passeggero seduto alla mia sinistra. E poi uno dopo l’altro anche gli altri si uniscono alle chiacchiere, in attesa di sentir ripartire il treno. Non proprio tutti, però. Io mi limito ad ascoltare, lo preferisco. Alla mia destra un signore sta studiando parole in cinese: sono divise in due colonne, cinese da una parte inglese dall’altra. Non stacca mai gli occhi da quel foglio e mentalmente impara a memoria verbi e aggettivi. Di fronte a me una ragazza giovane, il volto gelminiano (occhialini azzurri, capelli corti) mangia un panino e paziente e disponbile chiama la madre per farle cercare le coincidenze da Milano per Brescia per tranquillizzare la signora-col-cane che proprio non si dà pace. Sempre di fronte a me, alla destra e alla sinistra della ragazza, ci sono una donna che gioca con il cane della signora-col-cane, e che racconta le sue disavventure (questa volta settimanali) dei tanti viaggi pavesi-liguri. E c’è un signore, i modi antichi, che avverte casa del ritardo. E parla volentieri, diffondendo nello scompartimento complimenti alle signore. E non manca di condividere aneddoti della sua vita (è professore, da giovane ha insegnato in America, sei mesi in cui si è sentito davvero solo e lontano, fino all’incontro con una altrettanto giovane irlandese). Il treno riparte. Si parla dei disagi per ghiaccio e neve di questi giorni. Il Professore ha una proposta: “Bisognerebbe mettere delle resistenze sotto le strade – dice – così la neve potrebbe sciogliersi subito”. Però, aggiunge, costa troppo. E poi, penso io, bisognerebbe sventrare le strade… Non ricordo con quale collegamento i miei compagni di scompartimento finiscono a parlare di crisi. “E’ colpa di Prodi – dice il Professore – e dei suoi 9 fratelli, perché è lui che ha sbagliato il cambio dell’euro”. Interviene il signore alla mia sinistra. E’ calabrese, fa l’operaio. E racconta di quando appena arrivato l’Euro, era andato a vedere Padre Pio. “Ero nel parcheggio, e il custode mi dice 3 euro. E io gli dico, ma scusi è impossibile, l’estate scorsa erano tremila lire. E il custode risponde: sì infatti è uguale”. La stazione di Pavia si avvicina, mi preparo per scendere. Ci salutiamo tutti, ci si augura buon viaggio, buon Natale. Il viaggio è durato quasi due ore, invece di una. Ho finito Cosmopolis di De Lillo, ho visto uno spaccato di Italia. Perfetto.

Una casa di paglia per tenere lontani gli spiriti cattivi

Foto Donato Albanesi

Il furgoncino bianco ha lo sportello aperto. Dentro la pancia di metallo trovano spazio tra i sedili prodotti alimentari e di artigianato, quadri, riviste, dvd. Le etichette hanno caratteri difficili da decifrare. E’ tutto made in Ucraina.
 Lo sfondo è quello di piazzale Oberdan, ai piedi del centro storico di Pavia, poco lontano dal Ticino. E’ il mercatino del sabato, dedicato a chi ha lasciato l’Ucraina, a chi ha scelto l’Italia, ma non abbastanza. E’ il legame con un paese lontano due giorni di viaggio in auto, o tre ore in aereo che pochi si possono permettere. Un legame che si mantiene mandando a casa uno scatolone pieno di giocattoli per figli e nipoti. Ma anche pacchi di pasta italiana. E aspettando qualche dolce ucraino. «Perché il sapore è diverso, la vaniglia non so perché ma non è la stessa». Me lo spiega Tamara, che tiene nel sacchetto una torta Praga. E’ decorata con crema al cioccolato. Dentro ha uno strato di marmellata. E qui non si trova. E’ capace di mangiarla tutta, mi racconta,  anche se il primo anno che ha passato in Italia è dimagrita di 14 chili e non riesce più a prenderli.
 Tamara vive a Pavia da cinque anni. In Ucraina ha due figli. Sposati entrambi. Due nipotini, un anno e mezzo e tre e mezzo. Victor, il figlio maggiore, è venuto a trovarla a Pavia quest’anno per la prima volta. Tamara ha 49 anni, un lavoro con le carte in regola: fa le pulizie. Si sposta in bicicletta da una parte all’altra della città. Ma ora sta prendendo lezioni di guida perché vorrebbe passare al motorino. Prende più o meno mille euro al mese, paga l’affitto di un appartamento che divide con altre due signore. Per mangiare non spende molto e di vestiti ancora meno. Il resto lo manda tutto a casa. Perché, mi racconta «là il lavoro è pagato male, e i soldi non bastano». I due figli sono entrambi in polizia: prendono tra i 160 e i 200 euro al mese. L’affitto se ne porta via la metà. Il diploma per lavorare nel tessile Tamara qui non riesce a sfruttarlo, anche se per anni ha lavorato in fabbrica. Ha anche un altro diploma tecnico per usare i macchinari delle tintorie. 
Foto Donato Albanesi

 Dietro di lei Oleh, indaffarato tra gli scatoloni. E’ in Italia da cinque mesi. Il mercoledì parte con il furgone in modo da essere venerdì sera di ritorno a Pavia, per non mancare l’appuntamento del sabato. Perché i furgoni dall’Ucraina li aspettano in tanti, soprattutto donne che in città lavorano come badanti. Si avvicinano, cercano il prodotto desiderato, scambiano poche parole in questa lingua dura che però incanta.
 Tornare a casa in Ucraina viaggiando in furgone costa 80 euro, praticamente si divide benzina e pedaggio, come tra amici. Ci vogliono due giorni, in aereo tre ore, ma costa troppo. E  Oleh che viene da Cernovcy, stretta tra Romania e Moldova, poco meno di sei ore dalla capitale Kiev, non ne ha molti.
 Colpiscono i sorrisi dorati di queste donne dai lineamenti stanchi, di questi uomini silenziosi. E la cura con cui guardano tra quei prodotti con il sapore di casa. Ci sono succhi di frutta, scatole di cioccolatini, barattoli di sugo. E il pesce affumicato. Ma anche giornali, oggetti in legno. La tinta per i capelli, vasi e piatti decorati. Un quadro di Gesù Cristo, come quelli appesi sopra il letto dei nonni.
 C’è anche una casetta in paglia. L’amico di Oleh, che non parla italiano, ma a cui è stata tradotta la nostra chiacchierata, me ne regala una. E Tamara mi spiega ogni dettaglio. E’ decorata con semi colorati, fagioli secchi tagliati a metà e incollati, piselli dipinti di arancione, noci, grano saraceno spruzzato come fosse neve. L’immagine di San Nicola. E uno spicchio d’aglio. Per tenere lontani gli spiriti cattivi.

Nb: Grazie a Donato per le foto


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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