“Ma la torre arriva in alto alto”? Sara è piccolina, avrà tre anni. E’ seduta accanto a me sul treno in partenza al binario 23. Milano Centrale, verso Pavia e Voghera. Fermi al binario con qualche minuto di anticipo, c’è tempo per guardarsi attorno. Un cartello dice che per la torre bisogna andare al binario 24. La torre. La mamma di Sara le spiega con calma. “Vedi, guarda gli striscioni. Ci sono dei signori che stanno sulla torre”. La piccola prova a guardare fuori dal finestrino, ma proprio non ci riesce a vederli. “Quei signori” sono i ferrovieri della Wagon-Lits, 800 persone che rischiano il licenziamento. La torre è il loro presidio, dall’8 dicembre. I genitori di Sara parlano tra loro, a bassa voce, quasi per non farsi sentire dalla bambina aggrappata al finestrino: hanno una conoscente tra gli 800 lavoratori, ha perso il posto, niente più lavoro. Non si può partire o arrivare a Milano Centrale senza pensare a loro. Fino a un mese fa era rimasto lassù anche Giuseppe Gison, pavese, sospeso nell’incertezza del futuro e su quel traliccio traballante per 45 giorni e 45 notti. “Mamma, ma dove abitano questi signori”? E’ ancora Sara a chiederlo. Le passano davanti, attraverso il vetro del finestrino, le tende del presidio. E lei proprio non riesce a immaginarli questi papà che stanno su una torre. La risposta che lì ci dormono non la soddisfa tanto, ma poi il pensiero passa. I treni fischiano quando si passa accanto al presidio. Lo sguardo cade sugli striscioni, lungo le pareti della stazione, all’interno e all’esterno. Non si può viaggiare sui treni, scendere e salire nella grigia Milano senza pensare a chi lì urla la sua difesa per il lavoro.
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“Ma la torre arriva in alto”? Il presidio della Wagon Lits spiegato a Sara, 3 anni
Published febbraio 22, 2012 Luoghi , Storie 2 CommentsTag:crisi, lavoro, milano centrale, treni, wagon lits
Due disgraziate in cerca di risposte
Published giugno 26, 2008 Perché 10 CommentsTag:lavoro, life, pensieri
Capita di incontrare per strada una persona che non vedi da molto tempo. Tu sei con un’amica, la pelle rosso fuoco per il troppo sole nei tuoi due unici giorni di mare, spingi la bici come fosse un mulo con le borse della spesa appese al manubrio e traboccanti dal cestino. Hai una camicia a fiori da vera hippy e così anche la tua amica. Pantaloni corti e larghi che lasciano spuntare lo slip nero, canotta grigia, un’altra bici-mulo da spingere con ancora buste gialle dell’Esselunga. Tra il caldo, la spesa e questo “abito che non fa il monaco”, l’apparenza almeno è di due disgraziate. Che incontrano un vecchio compagno di corso.
“Tu cosa fai?”
“Lavoro da maggio in una multinazionale, non è la stessa di prima perché ci siamo lasciati in cattivi rapporti”
“Come mai?” (Chiedono stupite le due disgraziate)
“Ho chiesto il doppio e non me l’hanno dato, lavoravo 18 ore al giorno. Dove lavoro adesso mi danno un sacco di soldi e quindi ho accettato”
Le due disgraziate a questo punto non fanno la domanda fondamentale: “Scusa quanto guadagni?” Ma anzi sorridono e salutano. Tornate a case, sistemata la spesa, il gelato in freezer, il succo-esperimento-ananas-lime in frigo, la cena per la sera invece resta fuori, le due disgraziate si guardano. “Forse abbiamo sbagliato tutto…”
Con ammirazione per chi può già chiedere il doppio, senza rancore né invidia, solo stupore. E la consapevolezza che fare quello che davvero è il lavoro della vita è sempre diverso. Richiede qualcosa in più.