“Non possiamo distinguere se certi momenti profondi, per la loro essenza sottile e ambigua, appartengono all’anima o al corpo, se sono il malessere causato dal fatto di avvertire la futilità della vita, o l’indisposizione che deriva da un abisso organico: lo stomaco, il fegato, il cervello. Oggi la mia anima è triste fino al corpo”.
“Non riesco più a sopportare niente, a parte la vita: l’ufficio, la casa, le strade (perfino il loro contrario se ciò fosse possibile), ogni cosa mi pesa e mi opprime; solo l’insieme mi dà sollievo. Sì, in questo insieme, una cosa da nulla è sufficiente a consolarmi”.
(Il libro dell’inquietudine, Fernando Pessoa)
Le parole degli altri si mescolano a quelle che scorrono nella testa. Lo stomaco si attorciglia, poi cerca di liberarsi, di lasciarsi andare, di cacciare tutto quello che non puoi più tenere dentro. Eppure, con il respiro che si fa più controllato, con gli occhi che si chiudono, anche questa sensazione lentamente si allontana. Il corpo reagisce ai pensieri, diventa pensiero. Così l’insofferenza si traduce in un senso di soffocamento, il respiro che stenta a darti aria. E quel senso incontrollabile di inquietudine che mette in fila i pensieri uno dopo l’altro, poi li schiaccia, li dilata, li stritola. E lo stesso succede alla pelle, alla lingua, agli occhi. Poi li devi chiudere. E forse iniziare a cercare altre parole. Altre.