Pamuk la prima volta ha comprato il biglietto e ha girato per le stanze del museo Bagatti Valsecchi come un qualsiasi visitatore. La seconda volta una volontaria lo ha riconosciuto, ma per non disturbarlo non ha detto nulla. La terza volta si è presentato. Impossibile nascondere il legame con quegli oggetti esposti nelle stanze di Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi. Ogni tanto torna in via Gesù, piccola traversa di via Montenapoleone, Milano. Mi piacerebbe incontrarlo proprio qui. Di questo museo Orhan Pamuk ne parla nel suo ultimo libro Il museo dell’innocenza. Ne parla come un luogo in cui ritrovare un po’ di serenità, in cui perdersi tra le cose di altri. E quindi tra i loro ricordi. Sono legata a quel libro, tanto che quasi non lo so spiegare e ho seguito il suo consiglio. All’ingresso mi spiegano che non sono molti i visitatori-lettori di Pamuk, forse sono persino la prima, mi dicono. Lascio la borsa, cammino per le stanze solo con me stessa. E’ il palazzo di una famiglia nobile di fine Ottocento, con una collezione di oggetti del Cinqucento. Ceramiche elaborate, armature, spade e scudi, ma anche pettini, mobili in miniatura per bambini, un mortaio, un mappamondo. Senza aver letto Pamuk sarebbe stato solo un museo sulla cultura rinascimentale. Invece è un esempio di come sia possibile concentrare estratti di vita nelle cose. E’ una raccolta di oggetti. Fausto e Giuseppe hanno raccolto un pezzo dopo l’altro tutto quello c’è nelle loro stanze. Noi oggi possiamo leggere etichette che ne spiegano l’epoca, il materiale, l’uso. E possiamo solo immaginare i ricordi, le emozioni di ogni dettaglio.
Archivio per aprile 2011
Sulle tracce di Pamuk
Published aprile 28, 2011 Letture , Luoghi Leave a CommentTag:il museo dell'innocenza, milano, museo bagatti valsecchi, orhan pamuk
Ho conosciuto Melina. Piazza De Ferrari, Genova. L’ha vista prima mio fratello, seduta sui gradini del teatro Carlo Felice. I capelli grigi cortissimi, fiori a decorarle la testa, un abito giallo, un mantello scuro, con cucito il suo nome chiuso in un cuore: Melina Riccio. Genova è piena dei suoi messaggi. Li trovi dipinti di rosa sul cemento della sopraelevata, pennarello nero sui cartelli della stazione. A Pasqua gli alberelli di alloro del teatro erano coperti dalle sue tele. Tulle chiaro cucito su sacchetti della spazzatura, cuori dorati sul cartoncino rosso. Mi sono avvicinata, le ho chiesto di spiegarmi. Mi ha messo tra le mani un cuore di carta e ha iniziato il suo racconto. Parla in rima Melina. Non puoi trovare senso in tutto quello che dice, ma resti incantato. Il “domani” significa fare le cose “con le mani”. Non basta imparare una ricetta per sapere fare una torta. La dimentichi subito, anche se leggi con attenzione ogni passaggio. Devi provare a farla la torta, solo così ti rimarrà impressa la ricetta. Melina dice che passiamo troppo tempo concentrati sulla carta, sulle parole. Mentre mi parla ritaglia un pezzo di carta bianca a forma di stella. “E’ il nostro corpo”, mi dice. Piega su se stesse le gambe, poi le braccia e la testa. E’ quello che ci succede, ci chiudiamo in noi stessi, troppo concentrati a imparare nozioni. Non siamo più capaci di guardare il sole, di svegliarci al mattino e apprezzare quello che ci circonda. Secondo Melina dobbiamo essere creativi, rispettare l’ambiente, non creare rifiuti, non sprecare carta, parlare in modo corretto. Non farci cancellare dalla croce della chiesa e delle istuzioni, diventare autosufficienti, capaci di cavarcela da soli, senza dimenticarci degli altri. Avrei voluto registrare ogni singola parola, non riesco a ricordare nemmeno una rima. Faceva la sarta Melina, cucire era il suo lavoro. E’ nata ad Ariano Irpino, 23mila abitanti, provincia di Avellino. Sposata con tre figli. Ha vissuto a Milano, Varese, Genova. Un giorno, mi racconta, ha sentito che doveva fare qualcosa, chiamata da dio a diffondere un messaggio di amore, di pace. Ha lasciato tutto. Sapeva che i suoi figli avevano bisogno di lei. “Ma lasciandoli potevo salvare il futuro di tanti giovani”. Ti chiede cos’è l’anima. Cos’è l’anima? Aria, essenza.
Dalla finestra sul tetto si vede il cielo
Published aprile 21, 2011 Riflemozioni Leave a CommentTag:ikea, pavia, trasloco
Il pennello passa leggero sul legno, il colore cambia, diventa viola scuro. Poi trasforma una scatola rotonda, dorata, contenitore per uno di quei pacchi di Natale che nascondono cioccolatini e salame tra la paglietta trasparente. Dettagli. Piccoli cambiamenti. Mi piace alzare lo sguardo e vedere le travi di legno. Mi piace salire la scala per andare a dormire e vedere il cielo da una finestrella che segue la linea obliqua del tetto. Mi piace l’idea di aver sistemato le mie cose come piace a me. I numeri di Internazionale in ordine di data (un paio del 2004, pochi 2006, e poi a seguire fino a venerdì scorso), il mobile del bagno con il vetro della Billy in versione limitata. I miei libri sugli scaffali, i saggi da un lato, i romanzi dall’altro, non ancora in ordine alfabetico, ma almeno vicini per autore. Mi piace sapere che sono riuscita a montare il letto da sola, anche se mancano ancora metà doghe di legno. Mi piace entrare in questo cortile e avere la sensazione di essere in un altro mondo: le statuette di santi e madonne alla finestra della pizzeria, le piante grasse dietro le ringhiere, l’ascensore che sembra annunciare l’arrivo di un treno, din-don. Devo ancora appendere le fotografie. Un dettaglio dopo l’altro, per la mia casa nuova.
Non ho molto nel carrello. Gli ingredienti per fare una torta salata, il cous cous, due lattine di coca cola, una caffettiera piccola, comprata per la casa nuova. E l’ultimo numero di Dyland Dog. La signora davanti a me mi chiede se voglio passare avanti. No, non serve, non ho fretta. E’ vero, è domenica, mi dice, e dobbiamo tutti prenderci del tempo, stare tranquilli. Sorrido. Ha ragione. Prima di uscire di casa ho finito di vedere l’intervista a Vasco Rossi, alla Storia siamo noi. Non un mio mito, Vasco Rossi. Però mi sono trovata a commuovermi, forse per questi eccessi di sensibilità che adesso più di prima fatico a controllare. “Se rispetto la vita? Certo, perbacco… ma solo se rispetta me”. Ecco, penso a queste parole, ripetute al telefono tra gli scaffali del supermercato a una voce che mi scalda, quando la signora mi riporta alla realtà della coda alla cassa. “Non sei di qui, vero?”. In effetti no, lei Genova la ricorda solo perché ci prendeva il traghetto per la Sardegna. Anche lei non è pavese. Ma a Pavia vive dal 1954. Da 4-5 anni non torna a casa, ma quest’anno sì, partirà da Genova, per raggiungere le montagne tra Sassari e Nuoro. Mi mostra due foto nel portafoglio. La prima è di sua madre, una foto in bianco nero, con il tipico vestito sardo – mi spiega – un foulard a coprire i capelli. E’ morta a 28 anni, lasciando quattro figli. Era il 1941. La seconda foto è di una sua nipote. Anche lei morta giovanissima. Mi dice che non importa dove viviamo, basta stare bene, anche se il posto che abbiamo lasciato sembra a tutti gli altri migliore. Sistemo le mie cose sul rullo. Lei paga. Io preparo la tessera per la raccolta punti. Sistemo gli occhiali appesi alla maglietta. Arrivederci, buona domenica.