Archive for the 'Ho visto' Category

A Google è scappata una macchia di colore

arcobaleno

Cerco una strada a Vellezzo Bellini, 3mila abitanti a 13 chilometri da Pavia. Apro Google maps, digito, zoommo. E compare una macchia arcobaleno in corrispondenza della chiesa, con accanto quella che sembra una testa di mucca (o forse è come le nuvole e ognuno può vederci quello che vuole). Assicuro che a Vellezzo Bellini non ci sono strade dipinte con i colori dell’arcobaleno. Cosa succede a Google? A qualcuno è scappata la funzione pennello?

Il silenzio della ghiaia

Cimitero Monumentale di Pavia - foto Donato Albanesi
Cimitero Monumentale di Pavia – foto Donato Albanesi

 Andare al cimitero durante la commemorazione dei defunti significa vedere persone che si incontrano nei vialetti di ghiaia, si abbracciano, condividono. Ci sono famiglie con i bambini, ometti in miniatura che seri seri seguono mamma e papà. Sono andata nei tre cimiteri di Pavia come ospite. Per lavoro ho cercato di raccontare il dolore di chi porta un fiore sulla tomba di chi non c’è più. E il dolore di chi subisce un furto, di chi vede sparire la pianta appena lasciata sulla lapide. Vigili e carabinieri agli ingressi, perché nemmeno al cimitero si può essere sicuri. E il dolore di chi arriva da un altro paese, e passa tutta la giornata a pulire le tombe altrui, per mettere via qualche soldino: una coppia senza lavoro che in Romania ha un bimbo di 9 anni che aspetta per il compleanno un cellulare. Difficile da accontentare. Ci sono persone in piedi, le mani dietro la schiena, che in silenzio pregano. Ci sono persone che puliscono, spazzano, strappano l’erba secca. Ho visto questa signora seduta su una vecchia sedia da scuola. In mezzo al vialetto, davanti alla tomba di famiglia. Il cappotto e il cappello di lana, il mazzo di fiori ancora fasciato nella carta plastificata. Margherita gialle e crisantemi.  Sola e in silenzio.

Mi ricordo da piccolina quando si andava al cimitero di Gimigliano, Calabria, provincia di Catanzaro. Lì ci sono i miei morti. Non a Genova dove sono nata. Lì riposa da quasi un anno la nonna. Lo ricordo questo cimitero perché portare i fiori era un rito. Non nei giorni dei defunti, ma in estate. Si seguiva la mappa ormai impressa nella memoria per cercare i parenti, le lapidi in marmo, ciascuna con il suo colore, ciascuna con il suo angolo di pietra fredda. Da bambina curiosa guardavo le fotografie e le date di nascita e di morte. Mi colpiva vedere le donne anziane ritratte con l’abito da commare, tutto nero con il pizzo bianco sul petto. E mi colpiva ancora di più vedere i volti dei bambini. Ne avevo trovata una che si chiamava Marianna come me. La foto era in bianco e nero, morta tantissimi anni fa. Un vestitino con un grembiule bianco, capelli biondi con i boccoli. Era difficile da capire, difficile imparare che anche i bambini possono morire. E difficile vedere che nessuno metteva fiori freschi davanti a quel volto di bimba. Le ho sempre lasciato un fiore. Quando la zia va in Calabria lo porta al mio posto. La ghiaia dei viali fa lo stesso rumore sotto le scarpe, in ogni cimitero. Non sono mai stata in Veneto, a trovare il nonno. Ma prima o poi ci andrò.

Un’immagine stile McCarthy a Pavia

Altissimo. Giro lo sguardo e vedo quest’omone con la camicia a quadri e il cappello che sembra uscito da un libro di Cormac McCarthy. Cammina lento accanto a una signora che gli arriva sotto la spalla. Sono turisti, ne sono certa. Io sono lì attorno per lavoro, giro lo sguardo e chiedo al mio fotografo di fare uno scatto al volo (grazie Donato!). Mi viene in mente una strada polverosa, il viaggio lento di chi cammina sotto il sole di un deserto abitato. Sarà l’influenza del Buio fuori,  va vedo un po’ di McCarthy a Pavia e non posso non intrappolarlo in un’immagine.

Viaggiare un lunedì di luglio

Viaggiare un lunedì di luglio. Prendo il treno alle 9.30, Pavia-Genova. La macchinetta (tra l’altro hanno cambiato le biglietterie automatiche in stazione, aggiungendone un paio) mi dice che non c’è più posto. Amen, faccio il biglietto per il treno dopo ma salgo lo stesso. Me lo farò cambiare dal capotreno. Che però non si vede e quando si vede non si ferma. Anche perché la gente viaggia nel corridoio, in piedi o seduta sulle valigie o sui seggiolini ribaltabili. E quando è così nessuno si ferma a chiedere i biglietti. Mi devo alzare un po’ di volte, lasciar passare il mini-bar, e un po’ di gente che va al mare. In lontananza sento una bambina litigare con la nonna. “Non capisci – le dice – come si fa a prendere lo stesso albergo dell’anno scorso? E’ come una pianta che si secca, ne devi scegliere un’altra”. Rifletto. Ma siccome sto leggendo Alveare di Giuseppe Catozzella torno presto con la testa nel sangue e nei soldi della ‘ndrangheta.

Viaggio un lunedì di luglio e attraverso il mio centro storico come da molto non facevo. Via del Campo e la colonna infame, il profumo di spezie, le prostitute con i seni e le braccia cascanti sedute fuori dalla porta, i colori, le facce, le scritte in lingue difficili da imparare. Una bicicletta agganciata con tutta la forza alla chiesa dove sono stata battezzata colpisce il mio sguardo.

Viaggio un lunedì di luglio e non può essere tutto normale. Treno del ritorno ore 19.19. L’altrio della stazione Principe è pieno e si capisce subito che c’è qualcosa che non va. Strizzo gli occhi miopi per leggere i ritardi sul tabellone: 3 ore. Treni soppressi. Esce benzina dall’oleodotto a Sestri Ponente e i vigili del fuoco hanno chiuso le strade, evacuato 120 persone (questo lo scoprirò solo ore dopo) e fermato i treni… perché potrebbe saltare tutto. Fantastico. Comunque alla fine mi va persino bene. Il regionale delle 19.35 parte da Genova Brignole, e quindi è puntuale, senza un minuto di ritardo. Con il mio biglietto precedente da Intercity (13 euro) mi siedo nella prima classe del regionale, che è solo un po’ meno fetida del normale. Finisco di leggere Catozzella. Nei sedili di fianco a me, oltre il corridoio, una ragazza ha perso il cellulare. Aveva spostato le borse in un punto vuoto del treno e ora non trova più il telefono. Dev’essere russa, biondissima. Torna al suo vecchio posto, un passeggero le dice “lo facciamo squillare” (le porge il suo telefono perché sia lei a digitare il numero… tanto poi gli rimane in memoria, non è che sia un inno alla privacy). Ma non serve. Un ragazzo lo tira fuori dallo zaino. Lo restituisce. Poi parlando da solo in una lingua sconosciuta cambia scompartimento.

Metti una sera in un consiglio comunale

C’è chi guarda dritto davanti a sé, perso nel vuoto. Chi arriva in ritardo, chi per questo si scusa e chi no, c’è chi scrive su Facebook, chi risponde al telefono restando seduto al suo posto. C’è chi scarabocchia sui fogli mentre ascolta l’intervento del collega.
Tipi da consiglio comunale.
C’è chi non si perde una parola e chi semplicemente non c’è, chi parla con il vicino, chi sfoglia un giornale, c’è chi prende appunti e chi pensa a cosa fare il giorno dopo. C’è chi esce un attimo, chi lascia la sedia vuota, chi torna per parlare al microfono, chi interviene improvvisando. C’è chi parla dati in mano, chi parla e basta. C’è chi ci crede e chi no.
Tutti tipi da consiglio comunale.
E poi c’è il presidente del consiglio comunale che richiama il pubblico e chiede di non applaudire, “perché non siamo allo stadio”. L’applauso che contagia anche le chiese può dar fastidio… ma i tipi da consiglio comunale? Quelli no?

Alberi di cachi da immortalare

Nemmeno una foglia, i rami scuri, secchi, e quelle palline arancioni che sembrano perenni decorazioni. Non se ne incontrano tantissimi alberi di cachi. Ogni volta che ne trovo uno mi incanto. Mi fermo. Oppure, faccio abbassare il finestrino di corsa ad Anna, tiro fuori la macchina fotografica e in mezzo al disastro edilizio di San Martino Siccomario cerco di immortalare l’albero di cachi. Che mi piacciono. Tolgo la buccia ruvida, con un cucchiaino sistemo la polpa in una coppetta, mescolo veloce, come per amalgamare il tutto. Mi chiedono spesso se quei fili e quelle “lingue” più viscide non siano fastidiose. Sì, un po’ sì. Mio fratello, quando gli rispondo così, mi guarda schifato. Pensando agli alberi di cachi, ho un ricordo. Quando ero piccina c’è stato un periodo in cui le feste di compleanno si organizzavano all’asilo Chighizola, a Genova. Un bel giardino, con gli alberi di cachi. Gonna bianca, macchia arancione. Un posto perfetto.

Genoani occasionali, quel brutto striscione contro

“Genoano occasionale vieni solo con l’Internazionale”. Lo striscione compare qualche minuto prima di Genoa-Inter. Non sono d’accordo. Io che già mi innervosisco per il tifo-contro, non sono d’accordo. A Marassi c’erano quasi 30mila persone, di cui 20mila abbonati. Come funziona? Solo chi vede allo stadio tutte le partite è considerato un tifoso vero? Non sono d’accordo. C’è chi la domenica (o il sabato o il venerdì o pensa un po’ anche il lunedì) lavora. C’è chi semplicemente non può permettersi di pagare il biglietto e quindi seleziona con attenzione le partite sul calendario. Così, per informazione: la tribuna superiore costa 60 euro (escludendo a priori quella centrale da 100 a 150 euro), i distinti (lato lungo di fronte alla tribuna) costano 40 euro, gradinata 25 euro (se c’è posto) e 25 anche il settore ospiti, a Genova è la “gabbia” per le reti che circondano gli angoli riservati ai tifosi avversari. Non sono d’accordo dunque con quello striscione. O forse semplicemente non posso capire. Perché dovrebbe essere così sbagliato voler vedere in campo un Eto’o o magari Milito che fino a due anni fa era rossoblu? Perché dovrebbe essere sbagliato voler vedere una potenziale bella partita di calcio? Il tifoso che fa distinzioni, che fa lo schizzinoso con le facce nuove sugli spalti proprio non lo riesco a capire.

Night Lovers

Paola Turci respira Patty Smith. Non è solo interpretare le sue canzoni, è raccontare la rabbia, i sogni, i desideri. Un dialogo in musica con Enzo Guaitamacchi, voce di Lifegate. Luci soffuse, un quadro che prende forma, canzoni, ricordi, aneddoti. E’ Spaziomusica. “Da piccola volevo essere Patty Smith”, racconta Paola Turci. Si vestiva come lei, raccoglieva le sue fotografie, la madre le confondeva, in quelle immagini di donne bambine dai capelli lunghi e scuri. Poi c’è l’incontro. “Deludente”, racconta la cantautrice romana. La realizzazione di un sogno, poter rivelare il prorio amore per quella donna ispiratrice della sua passione artistica. “Mi sono trovata davanti un sorcio, i capelli bianchi, i baffi, quell’occhio storto che non mi guardava”. Questo choc si lascia superare velocemente, ma l’altro, quello di non essere presa in considerazione, di non essere guardata nemmeno con l’altro occhio, no. Fa più fatica ad essere cancellato dai ricordi. Però è pur sempre un idolo che si materializza, fisico e non sonoro, su un camper dopo un concerto. “E quando si ama qualcuno si supera tutto”, così Paola Turci ha messo da parte quella piccola delusione e ha reso omaggio alla Sacerdotessa del rock.

Because the night, 1978

Take me now baby here as I am
pull me close, try and understand
desire is hunger is the fire I breathe
love is a banquet on which we feed

come on now try and understand
the way I feel when I’m in your hands
take my hand come undercover
they can’t hurt you now,
can’t hurt you now, can’t hurt you now
because the night belongs to lovers
because the night belongs to lust
because the night belongs to lovers
because the night belongs to us

Drogheria Torielli, il tempo si ferma

Un profumo intenso, dolce. Lo senti mentre attraversi via dei Giustiniani. Diventa più chiaro in via San Bernardo. Vicoli stretti di Genova, ancora bui anche a mezzogiorno. C’è questa piccola drogheria, le vetrine cariche di spezie, infusi, sapone artigianale. Torielli è accoccolata tra questi vicoli dal 1920. E’ un piccolo mondo antico, lontano da tutto il resto. Cioccolato al peperoncino, alla rosa, barattoli di vetro carichi di tè e infusi. Ho scelto il tè di inverno, Orange Cookie, ne ho portato un sacchetto, il nome scritto a mano, con cura. Nelle vetrinette ci sono barattoli di spezie, zafferano in piccoli contenitori, origano, basilico, le più semplici. Poi i nomi si confondono. Sono tutti profumi che ne compongono uno solo, quasi stordisce. Le marmellate e il miele sono dietro il bancone di marmo, con la liquirizia. Le etichette sono scritte a mano, bordo rosso, inchiostro nero, stilografica. C’è silenzio e calma in questa drogheria. Dentro si aspetta il proprio turno, nessuno perde la pazienza, anche con dieci persone in coda. E’ così perché tutti sanno che Torielli è soprattutto un rito. Ti fanno assaggiare, annusare, toccare, provare. Segnano a mano il conto su un foglio a quadretti, il pacchettino per i regali è fatto con cura, nastri colorati e scatole di cartone. Si parla, si scambiano ricette, si chiedono consigli. Senza tempo.

I ragazzi che si baciano

“Scusate, potete andare là dietro, così è uno schifo”. Una signora con il cappotto rosso, bionda ossigenata, almeno sulla sessantina, grassoccia, bassina, cammina a passetti veloci sul binario. Lascia il marito seduto su una panchina, in attesa di un treno (il mio) in ritardo di trenta minuti. Si avvicina a due ragazzi. Lui ha le spalle appoggiate a una colonna, lei lo abbraccia. Si baciano. Sto leggendo Neve di Orhan Pamuk. Sulla panchina accanto a loro. Li ho visti e ho continuato a leggere. Lei è in partenza. Lui l’ha accompagnata. E si stanno baciando. Punto. Gente che si saluta, che si lascia, gente che si ritrova. Siamo in una stazione. Piccola, come quella di Pavia. La signora non dimostra la mia stessa indifferenza. Si avvicina a pochi centrimetri dalla loro faccia: “Spostatevi dietro la colonna così non vi vedo, è uno schifo”. Il ragazzo continua a tenersi stretta la ragazza e chiede alla signora di farsi i fatti suoi. “La mia ragazza parte per una settimana e io non posso nemmeno baciarla?” Una scena che mentre leggo Pamuk mi crea un certo disorientamento. Mi è venuto in mente Prévert e I ragazzi che si amano.

I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell’abbagliante splendore del loro primo amore

Saviano a Pavia, per tutti, per pochi

La testa appoggiata alla mano, Roberto Saviano guarda dritto davanti a sé. I volti di chi in quell’aula lunga e alta aspetta di sentire le sue parole. Non si può scrivere tutto, riportare tutto quello che ha detto in aula del 400, nella prima serata di Mafie 2010 a Pavia. Ma si può provare a trasmettere la pienezza con cui riesce a raccontare. E’ un fiume in piena, potrebbe parlare per ore. In alcuni momenti sembrano un peso quelle parole che deve riuscire a trasmettere. A volte invece sembrano una liberazione. “Chi racconta costruisce gli strumenti per cambiare il paese, chi dice che invece fa fare brutta figura al paese è il primo a invitare all’omertà». E lui racconta. Nonostante tutto. Anche se attorno è circondato dalla scorta. Che non lo lascia mai solo. E mentre lo vedi lì, per la prima volta così vicino, pensi che non può andare a mangiare una pizza, o al cinema o girare tra gli scaffali di una libreria. Che non può nemmeno fare due passi tranquillo, da solo. Per questo sento la sua voce come un peso e una liberazione. Le sue parole sono la condanna alla sua “situazione”, come lui stesso definisce la condanna a morte che pende sulla sua testa, ma sono anche l’unica cosa per cui vale la pena andare avanti.

Le parole servono per far capire, per rendere più consapevoli. “C’è solo un modo per salvare i giovani, spiegare come stanno davvero le cose”, dice Saviano. Non possono vedere davvero solo l’auto di lusso o il telefonino nuovo ogni settimana. Devono sapere che se decidono di entrare nel sistema prenderanno 2500 euro a omicidio, con weekend all’estero per cambiare aria per un po’. Dopo dieci anni prenderanno più o meno 4-5mila euro al mese. Tanti. Ma poi? Poi basta. E se si finisce in galera quei soldi andranno solo alle mogli con figli. “E devono sapere che un giorno arriverà qualcuno in carcere a dirti che tua moglie non può stare senza marito e che quindi puoi scegliere. Puoi scegliere da chi farti sostituire, un cugino, un fratello”. Non è vita questa. Nomi e cognomi, date, ricordi. Fatti di cronaca che si intrecciano alle sue sensazioni. Sono riuscita a sentire e vedere Saviano, sono riuscita a parlare qualche minuto con lui, che ha accettato di stringere mani, di firmare libri, alle persone che si sono messe in coda. Mi sento una privilegiata. Perché fuori dall’aula, c’erano 1500 persone che non hanno visto e sentito niente.Motivazioni varie, sicurezza soprattutto. Ma c’è stata poca chiarezza.

Tre uomini e una bambina che riusciva a vedere

L’auto lascia l’ultima curva, piccola tra colline aspre. Quattro generazioni strette sui sedili. Tutte donne. La bisnonna avvolta in abiti neri, di un lutto che si rinnova, che raccoglie la tradizione delle pacchiane, le vecchie del paese che si mostrano come parte di un rito, il pizzo bianco che esce dal seno, e strati stretti di stoffa nera che stringono la vita e poi ricadono in gonne vaporose. Poi la nonna, la mamma, due zie. Il punto di vista di una bambina di cinque anni. I codini, il musetto attento. L’auto accosta, un po’ prima dell’ingresso del cimitero. Non ci sono statue, poche cappelle. Il cimitero di Gimigliano, case arroccate in provincia di Catanzaro, è un lungo elenco di loculi. Lapidi semplici, una foto, un vaso. Si spegne il motore. I fiori fasciati nella plastica per sostituire corolle secche non hanno profumo. L’omaggio a parenti perduti.  

“Mamma, guarda quei tre signori”.
“Quali? Guarda che non c’è nessuno”.
“Mamma, ma dai. Sono lì, vicino al cancello. Quello con il piede appoggiato al muro è lo stesso che c’è nella foto a casa”.

In auto c’è solo silenzio. Stanno tutti zitti, tranne la bambina. La sua voce si fa insistente. Ha già il tono fermo di chi da grande saprà far sentire i suoi pensieri. La voce più anziana supplica in dialetto stretto di andare via.
I fiori sono rimasti nella plastica. Nessuno quel giorno è entrato al cimitero. C’è quella bambina indispettita da questi adulti che proprio non le hanno voluto credere. “Ma avevi già visto quegli uomini?” La bambina ci pensa. Solo nelle foto. Uno, quello che si appoggiava con un piede al muro, è lo stesso che c’è sul comodino della mamma. Lo ha riconosciuto subito. Poi si guarda attorno, in quella vecchia casa dove va ogni estate. L’altro signore lo riconosce in un’altra fotografia.

Zio Fiorentino.
Quello sul comodino era il papà di mia mamma. Nonno Clemente. Morti giovani, entrambi. Io sono quella bambina. Non ricordo niente di quel giorno. Gli altri, anzi le altre sì. Mia mamma, mia nonna, mia zia. Non me ne avevano mai parlato. Me lo hanno raccontato due giorni fa. Ancora con gli occhi che guardano lontano, come a cercare a tutti i costi di vedere quegli uomini. Un padre, uno zio. Un marito. Mia mamma dice che aveva capito subito che stavo descrivendo il nonno, si metteva sempre in quella posizione. Io non potevo saperlo, non l’ho mai conosciuto. E ora, dopo vent’anni, non so cosa dire. Però rivedo questa scena che mi è stata raccontata, come in un vecchio film, visto da altri.


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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