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Milano all’improvviso

Milano. Decido al volo, all’improvviso. Guardo gli orari dei treni  mentre mangio un pomodoro. Mi piace sempre il cielo che si fa scuro quando entri in stazione. Parto con l’idea che ho bisogno di fare due passi, non qui. Pavia-Milano è una distanza piccolissima, ma è una distanza. Un paio di scarpe, una maglietta, un regalo per mio fratello. Ma più che altro mi guardo attorno, circondata da persone che corrono o passeggiano, estremi. Ritrovo quell’indifferenza metropolitana che si incontra spesso all’estero.

Un uomo ha appoggiato la bicicletta in mezzo a uno spartitraffico e seduto su uno sgabello pieghevole disegna. Gli passano accanto i tram, rumorosi, pieni. E un cartello ricorda che devono andare a passo d’uomo. Penso ai numero incidenti degli ultimi mesi, mi chiedo se il cartello c’è per questo. O se c’era già. Una ragazza ha una maglietta con una scritta sulla schiena che attira l’attenzione: “E tu in cosa credi?”. Ne vedo un’altra con la t-shirt stile Minetti (“senza la t-shirt sono ancora meglio”). Non si parla una sola lingua in questa città, rumorosa ma non abbastanza da non permetterti di ascoltare i suoni di voci di paesi diversi. C’è un po’ di tutto, giacche e cravatte, abiti eleganti, turisti con le mani piene di sacchetti, colori, eccentrici, moda, vecchie signore. Una bici dorata, una bici che cade scivolando lungo il palo a cui è legata. Sono anche entrata in duomo. Mi colpisce l’esercitoall’ingresso, il soldato in mimetica che mi dice “open” e controlla il contenuto della borsa. Dentro è buio, ti chiedono di fare silenzio. E allora, silenzio.

Normandia-Bretagna/2. Facce

Cammini, ti guardi attorno. Quello che vedi dipende dalla concentrazione, dai pensieri del momento. Mi piace guardare le facce, i volti della gente che come  me cammina, si guarda attorno. A Giverny una coppia di orientali è seduta su una panchina davanti alla casa di Monet, immersa nel verde e nei colori dei suoi fiori. Rubo uno scatto, la foto è mossa, ma mentre sono lì a guardare quella donna ben vestita e l’uomo in grigio penso alla panchina di Dolls (Takeshi Kitano) lui e lei che si aspettano una vita.

All’estero la sensazione è che sia tutto più semplice, meno nervoso. In spiaggia ad Etretat un bimbo si avvicina all’acqua vestito, con le scarpette da ginnastica ai piedi. Prima scappa, poi fa un passo, poi i piedi finiscono immersi nel mare. I genitori sorridono, niente strilli, reazione più italiana. Forse parlo per luoghi comuni, a capofitto in stereotipi da due soldi. Ma penso alle facce. Nell’anziano che chiede l’elemosina a Dinan, nell’uomo dalla barba bianca che tiene sulla mano un gabbiano a Saint Malo, nel ragazzo che parla da solo seduto su un muretto di Concarneau con piume di uccello appuntate a raggera sui capelli, nel sorriso di Mireille mentre prepara la colazione all’hotel San Pedro, nella fatica di Jean Pierre e Jacqueline che hanno costruito con le loro mani lo splendido giardino e la casetta ad Alençon. In tutte queste facce vedo la capacità di prendere un respiro e affrontare le giornate, la vita, senza sprecare parole inutili. Forse è solo la malinconia da ritorno.

Normandia e Bretagna/1. Oceano

Sono partita lasciando a casa il computer. Decisa a non digitare nulla sulla tastiera. Ho scritto su carta, sulle pagine a righe di un quadernino. Diviso per giorni, fatto di dettagli. Un blog quotidiano un passo indietro nel tempo. Tornare, ultimamente non mi piace, ma prendo questo tempo cuscinetto prima del ritorno alla normalità, per raccogliere le immagini e i miei dettagli.

Normandia e Bretagna. Abbiamo attraversato grandi città e piccoli paesini. Insieme a Betty, Alice e Giovanni siamo entrati in chiese scure, abbiamo attraversato stradine irregolari, alzato lo sguardo su case in pietra e legno, storte. E abbiamo messo i piedi nell’oceano.

Come ho scritto sul diario di viaggio di Betty (molto più dettagliato del mio) l’oceano è stato una costante, che mi ha sorpresa, una costante sempre diversa. L’elefante di roccia di Etretat (nelle foto da sinistra in senso orario), il cielo tumultuoso di Omaha Beach, l’assenza temporanea dell’acqua che ci ha permesso di arrivare a Mont Saint Michel: 8 chilometri e 300 metri tra sabbie mobili, fango, correnti, con la possibilità di vedere sempre più vicini il monte e la sua rocca. I massi rosa sospesi uno sull’altro a Ploumanac’h.  L’oceano con l’acqua fredda e quasi bollente nelle piccole pozzanghere isolate, l’oceano con i colori capaci di cambiare in pochi minuti. Le maree che cancellano, sommergono e poi rilasciano. I tronchi immensi sulla spiaggia di Saint Malo, l’odore di alghe, fortissimo, sugli scogli piatti sotto il faro di Eckmuhl, le conchiglie strappate al mare a Concarneau. L’oceano con le nuvole che non si possono fermare. E sotto, sotto sempre un cielo azzurro. In undici giorni, attraversando il nord della Francia ho sempre trovato un cielo azzurro, a volte nascosto dietro il grigio, ma sempre disponibile a mostrare uno dei suoi angoli blu.

York, lontana almeno un po’

Ci sono momenti in cui bisogna avere la fortuna di poter partire, di poter essere distante, consapevoli che non basta, ma sicuri che sia già qualcosa. Sull’aereo per Leeds (punto di partenza per York, Uk) un signore mi chiede dove sto andando. Mi dice che a York ci lavora, ci pensa un po’ e aggiunge che assomiglia ad Alghero, dove è appena stato con la moglie. Me lo dice per aiutarmi a immaginarla. Io ad Alghero non sono mai stata, ma ringrazio per il suggerimento. Ha quasi 200mila abitanti York, le strade pienissime venerdì e sabato, poi più lente. Le case curve per il loro stesso peso, le travi in legno. Il fiume con il battello e la passeggiata e i tavolini. Le papere. Ci potrei vivere in un posto così.  Betty e suo fratello Roby, a York per lavoro, mi hanno fatto vivere la città, più a fondo dei giri da turista. Cena al pub, tra fish and chips e jacked potatoes, il cinema (Harry Potter, in 3D). La birra e la colazione all’inglese, usata al posto del pranzo. Il concerto di Blondie per la serata inaugurale delle corse dei cavalli. Per la gente del posto è l’evento dell’anno. Tutti elegantissimi, abiti stravaganti, cappellini in stile regina, i tacchi alti sul prato tagliato alla perfezione. L’ultima sera abbiamo cenato tutti a casa di Mandy, che con la sua famiglia ospitava Betty e Roby. Così se puoi vedere le case della gente, il giardino, la partita di cricket qualche prato più in là, se puoi vedere come si mangia, come si apparecchia la tavola, come sono arredate le stanze, sei già andato oltre la vacanza. Mandy da 15 anni lavora in un supermercato nel turno di notte, dalle 22 alle 6 del mattino. Questo colpisce. Così come vedere un ragazzo che per ore e ore sta in piedi in mezzo alla strada reggendo un cartello che indica un locale.

Sono convinta che tra indifferenza e rispetto per le idee degli altri ci sia qualcosa che spinge a non guardarsi troppo attorno. Qui non importa a nessuno se è fine luglio e vai in giro con gli stivali da neve. Sono seduta a un tavolino, mangio un tramezzino e scrivo su un quaderno. Un signore mi chiede se si può sedere con me, non ci sono altri tavoli liberi all’aperto. Gli dico di sì. Avrà una settantina d’anni, un cappello imbottito con la spilla del Chelsea. Ha preso uno di quei bicchieroni di caffè chesolo in Italia non vendono. Poi tira fuori da un suo sacchetto di plastica di un supermercato un saccottino salato e consuma così il suo pranzo. Mi racconta che è vedovo, che qui la vita è cara, che adora la cucina italiana ma non è mai stato in Italia, solo in Spagna, quando sua moglie era viva. Parliamo un po’, io zoppico nel mio inglese ma rispetto al primo giorno in cui probabilmente non avrei capito nemmeno se mi avessero chiesto “come ti chiami” ora riesco a formulare delle frasi.

Mi ha accompagnato Philip Roth in questi giorni, parole lette una dietro l’altra, forse non quelle giuste, forse avrei dovuto scegliere altri libri. Ma “questa era comunemente ritenuta una funzione della grande letteratura: fare da antidoto alla sofferenza attraverso la descrizione del nostro comune destino”. (La lezione di anatomia, P. Roth).

Viaggiare un lunedì di luglio

Viaggiare un lunedì di luglio. Prendo il treno alle 9.30, Pavia-Genova. La macchinetta (tra l’altro hanno cambiato le biglietterie automatiche in stazione, aggiungendone un paio) mi dice che non c’è più posto. Amen, faccio il biglietto per il treno dopo ma salgo lo stesso. Me lo farò cambiare dal capotreno. Che però non si vede e quando si vede non si ferma. Anche perché la gente viaggia nel corridoio, in piedi o seduta sulle valigie o sui seggiolini ribaltabili. E quando è così nessuno si ferma a chiedere i biglietti. Mi devo alzare un po’ di volte, lasciar passare il mini-bar, e un po’ di gente che va al mare. In lontananza sento una bambina litigare con la nonna. “Non capisci – le dice – come si fa a prendere lo stesso albergo dell’anno scorso? E’ come una pianta che si secca, ne devi scegliere un’altra”. Rifletto. Ma siccome sto leggendo Alveare di Giuseppe Catozzella torno presto con la testa nel sangue e nei soldi della ‘ndrangheta.

Viaggio un lunedì di luglio e attraverso il mio centro storico come da molto non facevo. Via del Campo e la colonna infame, il profumo di spezie, le prostitute con i seni e le braccia cascanti sedute fuori dalla porta, i colori, le facce, le scritte in lingue difficili da imparare. Una bicicletta agganciata con tutta la forza alla chiesa dove sono stata battezzata colpisce il mio sguardo.

Viaggio un lunedì di luglio e non può essere tutto normale. Treno del ritorno ore 19.19. L’altrio della stazione Principe è pieno e si capisce subito che c’è qualcosa che non va. Strizzo gli occhi miopi per leggere i ritardi sul tabellone: 3 ore. Treni soppressi. Esce benzina dall’oleodotto a Sestri Ponente e i vigili del fuoco hanno chiuso le strade, evacuato 120 persone (questo lo scoprirò solo ore dopo) e fermato i treni… perché potrebbe saltare tutto. Fantastico. Comunque alla fine mi va persino bene. Il regionale delle 19.35 parte da Genova Brignole, e quindi è puntuale, senza un minuto di ritardo. Con il mio biglietto precedente da Intercity (13 euro) mi siedo nella prima classe del regionale, che è solo un po’ meno fetida del normale. Finisco di leggere Catozzella. Nei sedili di fianco a me, oltre il corridoio, una ragazza ha perso il cellulare. Aveva spostato le borse in un punto vuoto del treno e ora non trova più il telefono. Dev’essere russa, biondissima. Torna al suo vecchio posto, un passeggero le dice “lo facciamo squillare” (le porge il suo telefono perché sia lei a digitare il numero… tanto poi gli rimane in memoria, non è che sia un inno alla privacy). Ma non serve. Un ragazzo lo tira fuori dallo zaino. Lo restituisce. Poi parlando da solo in una lingua sconosciuta cambia scompartimento.

Ben tornati in Italia

Scena 1

Lei si alza per prima, apre lo sportello che sopra le teste dei passeggeri raccoglie i bagagli a mano. Inizia a tirare fuori una borsa, poi due, poi un sacchetto bianco con un grosso peluche di Hello Kitty. Lui è nel corridoio tra le poltrone dell’aereo, volo Vienna-Milano Malpensa. Lei ha un culone, corpo robusto fasciato da un abito nero a fiori, i capelli biondissimi corti. Lui ha un panzone, i bottoni della camicia tesi. “Prima non te l’ho dato, ma se fai scene con le valigie ti tiro uno schiaffo”, lui usa un tono minaccioso. Lei borbotta. Credo sia russa, forse ucraina, anzi più ucraina che russa. Sono a un passo dal litigare, poi lui le mette una mano sul culo, poi le solleva leggermente il vestito e la mano gliela infila sotto. Qualche istante di quella che è la firma della tregua poi si può continuare a tirar fuori bagagli e sacchetti.

Scena 2

“Giuseeeeeppe”. Urla lei nel corridoio volante mentre si cammina verso l’aeroporto. “Sono troppo pesanti, io le lascio qui”. Lui, Giuseppe, poco più avanti elenca una serie di santi, non dimentica la madonna e poi torna indietro.

Ben tornati in Italia.

Vite che scorrono al centro di un treno

Il corridoio del treno separa due mondi che scorrono uno accanto all’altro e sembrano non guardarsi. Sono seduta in uno di quegli scompartimenti con i tavolini per gruppi di quattro posti, sono al centro. Di fronte a me una mamma cerca di far passare il tempo ai due figli, in viaggio verso il mare. Lei tiene in mano un mazzo di figurine, loro cercano il numero, separano le doppie, incollano sagome e vignette sugli animali. Il più piccolo tiene il muso, senza spiegare perche’. Se la prende con il più grande, non attaccano lo stesso numero di figurine. Mentre leggo La stella di Ratner (De Lillo) un uomo dall’altra parte, lato finestrino, ripete l’orario d’arrivo al telefono, insiste, dall’altra parte forse avevano capito male. Al suo tavolino un ragazzo tiene la testa bassa. Piange. Non riesce a smettere. Lo consola una biondina, gli tiene la mano sulla spalla. Parlano inglese, troppo piano anche solo per cogliere qualche parola. Perche’ piange? Sul treno si mischiano le vite delle persone, vite che difficilmente si incontrano.

Incrociando la Blat Family Tribu

Scendo dal treno. Ha piovuto, ma non piove più. Quando arrivo a Genova e non trovo subito il sole mi infastidisco, come se mi portassi dietro un filo di grigiore, contagioso. Sono quasi le cinque del pomeriggio, attraverso la stazione, vado verso la metropolitana. Alzo lo sguardo e vedo che tra le nuvole ancora scure si apre uno spiraglio. Sorrido. Mentre scendo i gradini, tenendo stretto in mano il biglietto del metro, vedo questo furgone (vedi foto) stracarico e sporco. Ha tende scure ai finestrini, è una specie di camper. Dentro non c’è nessuno, dietro una piccola Vespa rosa. Sorrido. Vedo una scritta: Blat Family Tribu. Scatto una foto e passo oltre. Però sono curiosa e trovo soddisfazione grazie a Google. Scopro che BLAT sta per Brice, Lou, Aude e Teo, rispettivamente papà, bimba di 1 anno, mamma e bimbo di 8 anni. Sono in viaggio, stanno attraversando l’Europa diretti in Mongolia, tappa obbligata del loro percorso la Russia. Sono partiti il 10 marzo 2010 e hanno fissato la data del ritorno ad Antibes: 31 gennaio 2011. Manca poco insomma. Sul loro sito tengono un diario di viaggio (http://www.wix.com/divinoria/blat-family-tribu), spiegano come fanno studiare il piccolo Teo per non fargli perdere la scuola e raccolgono i commenti di chi li incontra e li incrocia. Da dieci mesi la loro casa è un furgone, la Francia sempre più distante, e ora quando al rientro manca davvero poco Genova segna una delle ultime tappe.

Finestrini larghi chiusi sul mondo

 L’aria è fredda, così si insegue il sole, anche in attesa al binario. Il treno scorre lento, taglia paesaggi ingrigiti dalla brina. A Creverina, frazione di Isola del Cantone, c’è ancora il presepe, sagome di legno chiaro, persino un cammello e un angelo, sospeso. Che l’aria è gelata lo senti anche nel calore odoroso dello scompartimento. Mi accompagna Tangenziali, di Biondillo e Molina, nelle orecchie la musica scelta dal dio Ipod, brani casuali, adesso c’è Tutto su Eva, Carmen  Consoli: “Giurerai di non aver colpa mentre le lacrime bagnano la tua camiacia di seta”. Penso sia una fortuna che i finestrini dei treni siano così larghi, spaziosi: aperture sul mondo vero, perché dentro, mentre attraversi tempo e spazio, è facile illudersi di poter essere altrove.

Borno, senti il calore

Prima ancora del freddo nella neve senti la luce, il calore che viene dal sole, anche se nascosto, anche se coperto dalle nuvole. Gli alberi proteggono il terreno ai loro piedi, dalla luce per dare spazio al ghiaccio, dal freddo per lasciar sbocciare poche foglie verdi. Borno, quasi 2800 abitanti arrampicato in Val Camonica, ha case di pietra e legno, stradine strette da fare di corsa in discesa per non perdere il terreno sotto i piedi. Ha tanti turisti, i più adatti alla montagna sono parte del paese, cittadini aggiunti. Altri stridono, dovrebbero essere altrove: chi pretende un negozio aperto oltre gli orari di chiusura non ha niente a che vedere con chi si sveglia all’alba per garantire i servizi a chi li vuole trovare pronti. Chi cammina avvolto in giacche e sciarpe costose non può pretendere niente dai volti di chi vive tra le montagne. L’accoglienza tutto questo lo sottolinea. Un modo per insegnare il rispetto.

Sono stata tre giorni a Borno. Un viaggio in tre tappe (in altrettante foto su http://bruschidettagli.tumblr.com) Pavia-Milano, Milano-Brescia, Brescia-Boario. L’ultimo tratto su un trenino a un vagone, gli interni verde acqua, i sedili in pelle. Accanto a me il sosia di Guccini leggeva La spia che venne dal freddo di John Le Carré. Il treno si ferma in paesi anche piccolissimi.  A Tolino un albero è cresciuto quasi dentro alla stazioncina abbandonata. La pancia del vagone si apre e lascia entrare un vecchietto con la cuffia scura a proteggere la testa. Ho accettato un consiglio e da una stazione all’altra mi sono fatta accompagnare da Paolo Rumiz e dal suo L’Italia in seconda classe. Un viaggio in treno lungo tutto il paese. Suggestiva l’unione di parole e immagini, le sue e le mie.

La famiglia di Betty a Borno apre le porte del Navertino a chi vi passa accanto a inizio o fine passeggiata, a chi in paese apprezza i piatti della tradizione, a chi li vuole scoprire. I tavoli in legno, il calore della stufa, le tovaglie rosse come le bottiglie che decorano le finestre. Sopra la trattoria ci sono le camere, ciascuna porta il nome di un fiore. Si intrecciano su per la montagna, le pareti bianche, un terrazzino e due tavolini per curiosare tra i cavalli che stazionano sull’erba ghiacciata. Mi porto dentro racconti del paese, i ricordi della famiglia, i nomi e i soprannomi dei protagonisti delle storie. I vasi lanciati a Capodanno, un giovane che diventerà prete, la chiacchierona che stordisce con parole senza fine, il compleanno di Walter, Famiglia Cristiana che suona alle 8.30 del mattino, la mostra fotografica. E poi la storia, quella della nonna di Betty che negli anni Settanta capì che quel fienile dove spesso la gente si fermava a chiedere un piatto caldo poteva diventare un ristorante, un posto dove dormire. La scommessa di uno spirito battagliero, che ha creduto in un progetto, nell’importanza dell’accoglienza. Ci ha creduto nonostante tutto e questo dà valore ad ogni angolo del Navertino. E poi i clienti: quelli fedeli, quelli insopportabili. Accolti comunque. Un sorriso per condividere. Un sorriso, più amaro, per ammonire. Perché non c’è niente di scontato.

Barcelona, un laboratorio

Per strada la sera ci sono ragazzi che girano con lattine di birra, in vendita. Il mimo non è il semplice lenzuolo bianco e il trucco a coprire il vivo. E’ un travestimento elaborato. Barcelona è sempre in movimento, è vero. Bisogna dare ragione alle guide (anzi, alla Guida, la Routard). Si mangia a tutte le ore, si beve a tutte le ore, si cammina sempre. La città si piega ai tuoi turisti, che a loro volta spostano gli orari di pranzo e cena, prime abitudini da rivedere.

Barcelona in costruzione. La Sagrada familia è un laboratorio. I visitatori camminano a un passo dagli operai. Mi vengono in mente gli anziani che appena apre un cantiere in città se ne stanno a curiosare per un po’, controllano l’andamento dei lavori. Qui è sotto gli sguardi costanti della gente di tutto il mondo, che scopre di dare il suo contributo al progetto di Gaudì pagando i 12 euro dell’ingresso. Così insomma la puoi sentire anche tua.

E’ una città con gente strana. Brutte facce, se vogliamo, girano un po’ dappertutto. Ma oguno si fa gli affari suoi. Quello che colpisce è sicuramente la varietà e la vastità di volti. Chiedere informazioni è facile. Non importa in che lingua tenti di arrangiarti. Gli anziani del posto soprattutto sono incredibili. Io e mio fratello ne abbiamo incontrato uno con moglie sulle Ramblas. Cercavamo la piazzetta dell’albergo. Ci ha dato qualche indicazione. Poi ha voluto sapere da dove arriviamo. “Italia, Genova”. E lui tutto felice ci ha detto che ci ha vissuto per 4 mesi.

La lingua. Ancora una volta mi sento ignorante. Certo, sapevo della differenza tra castigliano e catalano, però non pensavo di trovarmi di fronte a due lingue completamente diverse, insomma non si può dire “in Spagna si parla lo spagnolo”. Qui il castigliano è una lingua diversa, trattata al pari di inglese e francese, compare nei menu, nelle informazioni, nei depliants. Mi piace l’adios per salutarsi.  Se non ti rivedrai mai più, è l’espressione più corretta. Se il giorno seguente sarai ancora lì, sarà un bentornato ancora più sorprendente.

Da Israele alla Russia, passando per Mortara

Andata.

“C’è una signora col passeggino che deve scendere, aspetti!” Il treno mentro lo dice inizia a muoversi. “La signora ormai scenderà a Genova”. Dialogo ragazza-capotreno.
Nel mio scompartimento solo io alzo la testa. Davanti a me un ragazzo che sembra uscito da un telefilm americano ascolta l’ipod. Non sente. Un signore sulla sessantina non dice niente. E poi c’è una famiglia israeliana. Etichetta sulla valigia. Il figlio grande, sulla ventina, mi lascia il posto (problemi di prenotazioni). Jeans, occhiali da sole sulla testa, capelli due millimetri, faccia gentile. Ha le scarpe da ginnastica nuove: bianco pulito e lacci verde chiaro. La figlia più piccola (si chiama Slil, “come il suono di un campanello” dicono, anzi mimano) ha 12 anni. La mamma che sa pochissime parole di italiano disegna i due numeri sul palmo della mano. Non va a scuola perché ci sono le vacanze. E’ bionda, piena. Ha il rimmel blu. Il marito ha i capelli ricciolini lasciati un po’ lunghi, tiene gli occhiali da sole, la maglietta gialla è attillata. Prima di scendere metterà un cappotto blu, fuori stagione, sembra quasi non essere suo. La ragazzina ha occhi furbi e svegli, una ciocca di capelli biondi su riccioli scuri. Tiene stretto un asino di peluche. Guardano fuori dal finestrino avanzi di neve. “Da voi nevica?” chiede il sessantenne. “Solo per un mese”, risponde il capofamiglia in inglese. L’altro capisce “solo un giorno”. Si parlano in lingue diverse. Mi offrono dei wafer al cioccolato. Sono affascinati dal panorama. Quello che vedono dal finestrino è una conca di verde intorno a Ronco Scrivia. Eppure ne sono incantati. Nello scompartimento accanto al mio non hanno la mia stessa fortuna (mentre sento una signora – che poi scoprirò dopo essere di Mortara – che chiede “com’è finita poi roma-inter?” penso agli scompartimenti come a delle stanze. Sì, penso proprio “che voce odiosa ha la signora nell’altra stanza”). Lì viaggia una coppia di Voghera che sta andando a Genova, hanno la barchètta a Sestri. La mortarese li martella. Occhiali scuri, grossi. Over 60, forse di più, ma tenuta bene. Racconta di tutto. E’ la sola a fumare in famiglia, un pacchetto al giorno (“l’altra sera ho fatto finta di mettere a posto le cose in cucina e sono andata a fumare di nascosto sul balcone”). Usa il treno abbastanza spesso. “Ma che paura ho avuto a Vigevano. Aspettavo il treno delle setteeunquarto quindi neanche tanto tardi e continuava ad avvicinarsi gente hai-da-accendere, hai-50-centesimi. Nemmeno a Porta Genova a Milano è così…”).

Ritorno.

Leggo Salomov. Si siedono due musicisti. Uno grosso, imponente, scenderà poi a Pavia. L’altro ha un accento straniero, ma parla un italiano perfetto, solo ogni tanto prende tempo per cercare la parola giusta. Camicia bianca, completo scuro. Scenderà a Milano. Ha lavorato alla Scala, o forse ci lavora ancora non riesco a capirlo. Si dice soddisfatto perché ha suonato quasi con tutti i direttori d’orchestra. Li elenca. Un peccato non conoscere e non riconoscere nemmeno un nome, ora saprei dire chi è uno stronzo, quale invece è bravissimo ma tratta male la gente, e chi a volte se ne frega e anche se qualcuno sbaglia fa finta di niente. A Tortona (il 1538 da Genova non ferma a Voghera) sale una famiglia. Sono russi. Mamma (piccolina, capelli corti scuri, occhialini), papà (il maglione a collo alto infilato nei pantaloni, la giacca lunga, il cappello di pelle nera, baffi biondi quasi arancioni), figlia (piumino rosa, capelli chiari). Lui curiosa sulla guida (vedo una foto di piazza De Ferrari). Sono stati all’outlet di Serravalle. Hanno diversi pacchi, hanno comprato le scarpe da Ferragamo. Scenderanno a Milano. Cosa racconteranno dell’Italia?


I BRUSCHI DETTAGLI

Raccontare, vedere poi ascoltare e scrivere. Leggere, chiedere, curiosare. E una pagina bianca per dirlo a qualcuno. Non il Tutto, solo qualche dettaglio

SUL COMODINO

Paul Auster, un po' di Pamuk, Erri De Luca

ULTIME LETTURE

Un uso qualunque di te (Sara Rattaro)

Twitter factor (Augusto Valeriani)

La vita è altrove (Milan Kundera)

1Q84 (Haruki Murakami)

Zita (Enrico Deaglio)

L'animale morente (Philip Roth)

Così è la vita (Concita de Gregorio)

I pesci non chiudono gli occhi (Erri De Luca)

Cattedrale (Raymond Carver)

Lamento di Portonoy (Philip Roth)

Libertà (Jonathan Franzen)

Il dio del massacro (Yasmina Reza)

L'uomo che cade (Don De Lillo)

Il condominio (James G. Ballard)

Sunset limited (Cormac McCarthy)

I racconti della maturità (Anton Cechov)

Basket & Zen (Phil Jackson)

Il professore di desiderio (Philip Roth)

Uomo nel buio (Paul Auster)

Indignazione (Philip Roth)

Inganno (Philip Roth)

Il buio fuori (Cormac McCarthy)

Alveare (Giuseppe Catozzella)

Il Giusto (Helene Uri)

Raccontami una storia speciale (Chitra Banerjee Divakaruni)

Cielo di sabbia (Joe R. Lansdale)

La stella di Ratner (Don DeLillo)

3096 giorni (Natascha Kampusch)

Giuliano Ravizza, dentro una vita (Roberto Alessi)

Boy (Takeshi Kitano)

La nuova vita (Orhan Pamuk)

L'arte di ascoltare i battiti del cuore (Jan-Philipp Sendker)

Il teatro di Sabbath (Philip Roth)

Sulla sedia sbagliata (Sara Rattaro)

Istanbul (Orhan Pamuk)

Fra-Intendimenti (Kaha Mohamed Aden)

Indignatevi! (Stéphane Hessel)

Il malinteso (Irène Némirovsky)

Nomi, cognomi e infami (Giulio Cavalli)

Tangenziali (Gianni Biondillo e Michele Monina)

L’Italia in seconda classe (Paolo Rumiz)

ULTIME VISIONI

Be kind rewind (Michel Gondry, 2007)

Kids return (Takeshi Kitano, 1996)

Home (Ursula Meier, 2009)

Yesterday once more (Johnnie To, 2007)

Stil life (Jia Zhang-Ke, 2006)

Cocaina (Roberto Burchielli e Mauro Parissone, 2007)

Alla luce del sole (Roberto Faenza, 2005)

Come Dio comanda (Gabriele Salvatores, 2008)

Genova, un luogo per dimenticare (Michael Winterbottom, 2010)

Miral (ulian Schnabel, 2010)

Silvio forever (Roberto Faenza, 2011)

Election (Johnnie To, 2005)

Oasis (Lee Chang-dong, 2002)

Addio mia concubina(Chen Kaige, 1993)

La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010)

Departures (Yojiro Takita, 2008)

La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010)

Flags of our fathers (Clint Eastwood, 2006)

L'uomo che fissa le capre (Grant Heslov, 2009)

Buongiorno Notte (Marco Bellocchio, 2003)

Vallanzasca - Gli angeli del male (Michele Placido, 2010)

Paz! (Renato De Maria, 2001)

Stato di paura (Roberto Burchielli, 2007)

Gorbaciof (Stefano Incerti, 2010)

L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet, 2008)

Confessions (Tetsuya Nakashima, 2010)

127 ore (Danny Boyle, 2010)

Qualunquemente (Giulio Manfredonia, 2011)

American life (Sam Mendes, 2009)

Look both ways (Sarah Watt, 2005)
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